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Museo e città della conoscenza sono un binomio perfetto. Se uno vuole sapere dove ha casa la conoscenza in una città, cerca i suoi musei. In Germania, Brema, quella famosa per i quattro musicanti, come città della conoscenza si presenta attraverso i suoi sette musei, promettendo entusiasmanti spedizioni nel mondo delle scienze, avventure per i cinque sensi, il giro del mondo in 80 minuti e altro ancora.
L’International Council of Museum (Icom), nell’assemblea generale dell’Aja del 1989, definì il museo: “Un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che compie ricerche riguardanti le testimonianze materiali dell’uomo e del suo ambiente naturale, le raccoglie, le conserva, le comunica e soprattutto le espone a fini di studio, educazione e diletto.” Una cosa molto viva, palpitante, un luogo dove il sangue fluido del sapere scorre per tutte le vene.
È indubbiamente merito dell’Icom, come della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società (2005), se oggi i musei offrono opportunità nel passato insospettabili: ricchi siti web, percorsi didattici, laboratori, visite virtuali, bar e bookshop.
Eppure non abbiamo ancora acquisito famigliarità con queste abitazioni della conoscenza. Sono luoghi che ancora esercitano nei nostri confronti una certa soggezione, come le chiese, come tutto ciò che contiene un passato a cui si accede con timore reverenziale, attraverso riti che possono essere preparatori o di iniziazione, come lasciare oggetti, borse e indumenti in deposito prima di accedere alle sale o quelli gestiti e diretti dalle guide o dai delegati alle audioguide, che ti rivestono con lo stigma del perenne turista anche quando sei a casa tua.
In queste abitazioni della conoscenza, gli oggetti, che ne sono la ragione e l’espressione, abitano in modo così invasivo da rendere indifferente l’identità del loro occasionale ospite in visita, il quale pare lì giunto solo per rendere ossequio, muovendosi a una debita distanza, in rispettoso silenzio, spostandosi quasi senza calpestare o urtare lo spazio, in un luogo che pare tale solo per le opere o i cimeli esposti, ma desolatamente un non luogo, un lungo corridoio di transiti per i suoi visitatori.
Ci sono passaggi nella Convenzione europea sul valore dell’eredità culturale, citata più sopra, che meriterebbero una più attenta e aggiornata riflessione. Per esempio un’affermazione come questa: “Riconoscendo la necessità di mettere la persona e i valori umani al centro di un’idea ampliata e interdisciplinare di eredità culturale”, oppure “l’esercizio del diritto all’eredità culturale può essere soggetto soltanto a quelle limitazioni che sono necessarie in una società democratica, per la protezione dell’interesse pubblico e degli altrui diritti e libertà”.
Ecco. Pensavo che l’esercizio del “diritto all’eredità culturale” è qualcosa che riguarda la città della conoscenza e, nello specifico, quei quartieri in cui la conoscenza abita che si chiamano musei. Quartieri che forse dovrebbero dialogare, comunicare tra loro, individuare gallerie di transiti, di reciproci passaggi, di contaminazioni, richiami e rimandi, per porre al centro la citata “idea ampliata e interdisciplinare di eredità culturale”.
Penso ai musei come punto d’incontro per la comunità, come luoghi di apprendimento permanente, di valori democratici e di apprendimento intergenerazionale.
I musei depositari della nostra identità, perché luoghi di conservazione dell’eredità culturale e della memoria storica. E allora i musei dovrebbero diventarci famigliari, non indurci in soggezione. Come se ogni volta andassimo a visitare le spoglie del nonno al camposanto. Mentre conservano il passato, potrebbero accogliere il presente nella sua vitalità e nelle sue espressioni. Si tengono iniziative pubbliche nelle sale cittadine, nelle sale delle biblioteche, nei teatri. E i musei? Non hanno sale da aprire ai momenti di vita, agli appuntamenti della città? I concerti a palazzo Costabili, sede del museo Archeologico nazionale, sono stati una felice intuizione, questa è una delle strade da percorrere.
Avvicinarsi a un museo con uno spirito che non si limiti alla semplice visita lo rende un corpo vivo della città, un luogo del presente anziché un luogo coniugato al passato. E questo vale anche per tutti i luoghi in cui è di casa la cultura, dalle scuole alle università. Farli uscire dalla loro riservatezza, dalla loro esclusività, dal loro angolo di storia o d’uso, per aprirli alla vita del territorio. Questo è uno dei compiti fondamentali di una città della conoscenza, di una città che voglia famigliarizzare con i luoghi dell’apprendimento, integrandoli nella vita quotidiana delle persone.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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