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“Ci sono parole” come ha scritto una volta il filosofo tedesco Siegfried Kracauer, “che passano di bocca in bocca attraverso i secoli senza che il loro contenuto concettuale assuma mai nella nostra mente contorni chiari e definiti.” Una di queste parole è ‘amicizia’. Un termine talmente utilizzato fra di noi, che spesso se ne dimentica il significato. Con chi si manifesta? Con i compagni di scuola, con i colleghi, con i vicini di casa, con persone vicine oppure lontane? E chi sono i nostri ‘amici’? L’amicizia è quella che si coltiva da ragazzi, oppure è un sentimento che ci accompagna tutta la vita e che si rafforza solo in età adulta? Oggi, nell’epoca di Facebook e di una vita che passa giorno per giorno come un lampo, esiste ancora l’amicizia profonda e resistente d’una volta?

“Troppe cose si perdono del mondo che scompare”, ha scritto una volta lo storico Arturo Carlo Jemolo, “si nota spesso lo svanire del pudore, non solo quello del corpo, ma l’altro delle parole, dello scoprire la propria anima: ma io temo assai che scompaia anche l’amicizia”. Fra gli amici di Paolo Ravenna c’era anche Arturo Carlo Jemolo, professore di Diritto ecclesiastico a Roma. Cattolico fervente ma anche difensore strenuo della distinzione fra Stato e Chiesa. Paolo Ravenna ha sempre parlato molto bene di Jemolo perché durante la persecuzione degli ebrei, negli anni dopo le leggi razziali del 1938, ha salvato clandestinamente una famiglia ebrea. Senza una clamorosa retorica antifascista, senza ogni forma di esibizionismo patetico. L’ha fatto per amicizia, per autentica amicizia umana: per un’amicizia che non conosce solo una fede o un’ideologia comune. Perché alla fine, ciò che veramente conta per vivere e dimostrare l’amicizia sono le cose concrete. Salvare la vita degli altri ma anche salvare e proteggere una città o un paesaggio intero è un atto d’amicizia, senza nominarla. Questo si poteva imparare dai tanti amici di Paolo Ravenna come Jemolo o Giorgio Bassani o Tullia Zevi, per citare solo tre nomi. Per l’avvocato l’amicizia contava moltissimo. Ma l’amicizia significa anche dover differenziare fra la colpa dei tanti, dei pochi o di un uomo solo. Alla sinagoga in via Mazzini è stata posta una lapide. Vi si leggono scolpiti i nomi degli ebrei ferraresi uccisi nei campi di concentramento nazisti. Il cognome Ravenna appare frequentemente, quasi come nessun altro. Tutti quei Ravenna sulla lapide sono stati deportati e non sono mai più ritornati a Ferrara. Leggere i nomi su una lapide per un tedesco non è mai facile, perché sempre accompagnato da un ricordo amaro della storia recente della Germania. Paolo Ravenna avrebbe avuto non pochi motivi per essere scettico e sospettoso dei tedeschi. Ma per lui c’era sempre una differenza fra le colpe della gente di ieri e l’innocenza delle nuove generazioni. La prima volta in cui avemmo l’occasione di conoscerci, mi pregò immediatamente di essergli d’aiuto nella ricerca dell’identità di un soldato tedesco della Wehrmacht che durante l’occupazione nazista si recava giornalmente alla biblioteca comunale, mostrando molto interesse per i classici italiani. Questo maggiore, istruito e cosciente, avrebbe fatto l’impossibile per proteggere la biblioteca dagli atti vandalici dei militari tedeschi, come confermano testimoni dell’epoca. Soprattutto si sarebbe particolarmente adoperato per salvaguardare il materiale archiviato concernente il “comune ebreo” di Ferrara. Paolo Ravenna voleva sapere da me chi era quel soldato buono e civile della Wehrmacht nazista. Le responsabilità delle truppe tedesche sul territorio italiano le conoscono tutti, ma per Ravenna era più importante sapere qualcosa sulla vita di un soldato dissidente e rispettoso delle persone e della loro cultura. Una memoria civile e matura sui crimini perpetrati dai fascisti italiani e dai nazionalsocialisti tedeschi non si deve limitare al perdono, ma deve condurre ad una ricerca consapevole che abbia il grande coraggio dell’analisi obiettiva e quindi della differenziazione: l’avvocato Ravenna aveva questo coraggio. Per me Paolo Ravenna, con la sua serietà e il suo decennale impegno per Italia Nostra, il suo amore per Ferrara, alla quale pur non risparmiava critiche talvolta anche dure ed impazienti, e la sua estrema affidabilità, ha rappresentato quei valori di una volta e fra questi anche l’amicizia, oltre i limiti della simpatia e della superficiale cordialità. Il senso di responsabilità per la ‘polis’, la città in cui viviamo, era per loro una cosa ovvia. La ‘città nostra’ o il ‘Paese nostro’ non erano per quella generazione bandiere da sventolare ma da vivere, da difendere e da costruire. Un amore tutto particolare Paolo Ravenna l’aveva per esempio per il Delta: quando ci recavamo nei dintorni di Ferrara, nelle cittadine e nei piccoli paesi, i suoi racconti erano interminabili: battaglie, nomi, progetti, ricordi senza fine. E ciò che è oggi il delta del Po è merito di uomini come l’avvocato Ravenna e, come egli stesso ha sempre sottolineato, del suo grande insegnante-amico Giorgio Bassani. Al centro del suo rapporto di amicizia con il famoso scrittore c’erano, paradossalmente, meno poesia e letteratura e più impegno civile per la protezione e la difesa del tesoro culturale italiano, della ‘Nostra Italia’, come ripeteva sempre con chiarezza a tutti quelli che erano capaci solo di lamentarsi della decadenza del Paese. Quando si vuole ricordare Paolo Ravenna, non si può fare a meno di menzionare la sua passione per la fotografia. Il cimitero ebraico di via delle Vigna, cui ha dedicato anche un bellissimo saggio fotografico “L’antico orto degli ebrei“, era uno dei suoi luoghi preferiti. Sebbene non sia mai stato un acceso sostenitore del culto dei morti, questo luogo, dove sono sepolti anche i genitori, i parenti e tantissimi amici, ha significato per lui davvero molto. Non solo come luogo per ricordare i tempi passati e gli amici che non ci sono più, ma anche per progettare qualcosa di nuovo per il futuro, in memoria dei defunti. Poco prima del suo riposo eterno, mi ha dato in mano un foglio un po‘ stropicciato con una poesia che mi parve avesse un grandissimo valore per lui:

Agli amici
da Primo Levi

Cari amici, qui dico amici
Nel senso vasto della parola:
Moglie, sorella, sodali, parenti,
Compagne e compagni di scuola,
Persone viste una volta sola
O praticate per tutta la vita:
Purché fra noi, per almeno un momento,
Sia stato teso un segmento,
Una corda ben definita.
Dico per voi, compagni d’un cammino
Folto, non privo di fatica,
E per voi pure, che avete perduto
L’anima, l’animo, la voglia di vita.
O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu
Che mi leggi: ricorda il tempo,
Prima che s’indurisse la cera,
Quando ognuno era come un sigillo.
Di noi ciascuno reca l’impronta
Dell’amico incontrato per via
In ognuno la traccia di ognuno.
Per il bene od il male
In saggezza o in follia
Ognuno stampato da ognuno.
Ora che il tempo urge da presso,
Che le imprese sono finite,
A voi tutti l’augurio sommesso.
Che l’autunno sia lungo e mite.

Ravenna sognava di realizzare un nuovo progetto: voleva pubblicare un libro sui suoi amici più cari, ne aveva tanti. Avrebbe dovuto ricordare un mondo, come ha scritto Jemolo, “in cui la parola amico aveva un significato profondo”. E’ come un’eredità per i giovani d’oggi.

Carl Wilhelm Macke, giornalista pubblicista indipendente, è segretario generale dell’associazione “Journalisten helfen Journalisten” con sede a Monaco di Baviera. Amante da sempre dell’Italia, è un cultore della letteratura emiliano romagnola contemporanea. Vive tra Monaco di Baviera e Ferrara.

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Carl Wilhelm Macke

È nato nel 1950 a Cloppenburg in Bassa Sassonia nel nord-ovest della Germania. Oggi vive a Monaco di Baviera e il piu possibile anche a Ferrara. Lavora come scrittore e giornalista. E’ Segretario generale della rete globale “Giornalisti aiutano Giornalisti (www.journalistenhelfen.org) in zone di guerra e di crisi, e curatore dell’antologia “Bologna e l’Emilia Romagna”, Berlino, 2009. Amante della pianura.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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