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Vandalismo o legittimo e comprensibile atto di accusa? Il mare rabbioso della protesta ha innalzato le onde fino a travolgere quelli che sono ed erano i segni di una storia, la nostra. Le statue hanno rappresentato, nel corso dei secoli, la scena in cui l’umanità ha vissuto, ha agito, quasi fossero una popolazione in cammino esse stesse, passo dopo passo a percorrere i tempi. Le abbiamo modellate noi, attraverso i nostri scultori, commissionate e celebrate, collocate con ammirazione, rispetto e venerazione nei parchi, nelle chiese, nelle piazze, nei punti più significativi della nostra civiltà eroica o corrotta, conquistatrice o aguzzina, coraggiosa o vigliaccamente profittatrice. Sono creature nostre che prendono vita nelle nostre fucine, nel nostro immaginario e scatenano un memento del passato che riconosciamo o tendiamo a disconoscere perché ce ne vergogniamo o avvertiamo estraneo ai nostri principi dell’attualità.
Che ci piaccia o no, sono pezzi di marmo o bronzo scalpellati e forgiati per testimoniare una storia di cui andare fieri o rinnegare e ripudiare. Rammentano un passato, una rivoluzione, un credo religioso, una vittoria bellica, una conquista, una scoperta, un merito in campo scientifico, artistico, letterario, culturale in generale. E quando disconosciamo o ripudiamo un segno visibile e potente dell’iconografia perché la storia ce lo impone, si crea inevitabilmente una crepa, un mea culpa in cui tutto viene rimesso in discussione, un indietreggiare per poi riprendere la rincorsa verso nuove idealità, lasciando alle spalle le macerie di capitoli di storia scomodi. Diventa un corto circuito che genera per un attimo oscurità, un blackout della storia che dura da sempre.

Nell’Isola di Pasqua, appartenente al Cile, una serie di statue monolitiche, circa mille moai creati presumibilmente intorno all’anno 1000 d.C., ricavate da un unico blocco di tufo si affacciano sull’Oceano Pacifico, sembrano fissarlo immutabilmente. Alcune reggono strani copricapi che ricordano il cilindro e la loro altezza, da 2,5 metri a 10 metri impressiona davvero, se si pensa che il corpo rimane completamente interrato. Furono scolpite direttamente nelle cave e trasportate inspiegabilmente nella posizione eretta, servendosi di tronchi d’albero che, presumibilmente, lasciarono l’isola completamente disboscata. Celebravano gli antenati defunti o importanti personaggi della comunità o forse erette per testimoniare credenze religiose: il mistero avvolge ancora i moai. Quello che lascia pensare a una guerra civile, uno stravolgimento sociale, una rimozione di questi stupendi simboli, oppure, ipotesi meno accreditata, un terremoto, è l’immagine di teste divelte e statue rimosse vistosamente dalla loro sede.

Passando ccn un balzo epocale alla Rivoluzione Francese, oltre alle teste umane caddero anche numerose teste di bronzo, nel nome della liberté, fraternitè, egalitè. L’ancien regime era morto per sempre attraverso, prima ancora, i suoi simboli.

Il 2001 segna tristemente la fine dei Buddha di Bamiyan, le due stupende statue scolpite da un gruppo buddista nelle pareti di roccia della valle di Bamiyan in Afghanistan, sulla Via della Seta, itinerario mercantile tra Cina, Asia Centrale, Medio Oriente ed Europa, riconosciute Patrimonio Unesco: 400 religiosi afgani, interpretando il pensiero dei talebani musulmani, decretarono l’abbattimento delle prestigiose sculture perché rappresentati di tendenze idolatre e infedeli. Ai lati delle due opere, i monaci vivevano come eremiti in piccole grotte scavate come caverne, addobbate con statue religiose e meravigliosi affreschi variopinti.

E’ IL 2003 quando una statua di Saddam Hussein viene colpita da un uomo con un grosso martello, prima di essere aggredita dalla folla. Immagine che ha fatto il giro del mondo come emblema di condanna e di svolta. Per poi ritrattare: dopo 13 anni, l’uomo ha dichiarato di essersi pentito perché il dopo-Saddam è peggiore del passato.

Nel 2014 tocca alla più grande statua di Lenin, eretta nella piazza principale di Kharkiv in Ucraina: un’altra statua di regime ‘giù per terra’, rimozione eccellente in una lotta non ancora risolta tra filorussi e dissidenza nazionalista. La stessa sorte toccata a Karl Marx nei Paesi dell’ex Unione Sovietica.

E siamo ancora qua, con la nostra voglia di abbattere, demolire, annullare traccia, ridisegnare una storia che ha subito delle svolte, non è andata come volevamo, ci ha deluso, rammaricato, infuriato.
Ora tocca a Cristoforo Colombo, demolito e gettato in un lago a Richmond, Virginia; tocca a Robert Milligan, deprecabile mercante di schiavi insieme a Eduard Colston. Tocca pure a Cecil Rhodes, considerato precursore dell’apartheid in Sudafrica, da cui prenderebbe nome la Rodesia.
Si arriva perfino a Wiston Churchill, la cui statua viene imbrattata, in Gran Bretagna, con l’infame scritta ‘was a racist” – era un razzista.
E poi ancora in Belgio, stigmatizzando ad Anversa il ricordo statuario di Leopoldo II, autore della sanguinosa colonizzazione del Congo nella seconda metà dell’800. Il popolo non dimentica e prima o poi ti chiede il conto. Nella nostra Italia è caduto su Indro Montanelli il peso della Storia, con il movimento ‘I Sentinelli’ che ne chiede la rimozione di ogni traccia del monumento e dell’effigie pubblica dopo che ne sono state rispolverate storia e dichiarazioni sulla campagna di Abissinia del 1935 a cui partecipò, che comprende la narrazione della 12enne acquisita come sposa etiope in un contesto di guerra.

Siamo un’umanità che ha bisogno di rivedere epocalmente la propria storia, ammettere errori, a volte mostruosità, per sopravvivere a fatti ed eventi talmente abnormi da non consentire l’assoluzione, la dignità. Sarà sufficiente l’abbattimento delle statue, segno di passaggio storico, ad alleggerirci le coscienze?

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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