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Bangalore, India. Primo mattino, luci della strada che si spengono piano piano, un traffico ancora silenzioso e rarefatto, il mondo che si risveglia lentamente. Qualche finestra illuminata.
Poche ore, dopo aver salutato la brina, e saremo immersi in uno dei paesi più colorati del mondo, nei clacson fragorosi e sprezzanti che starnazzano come bianche oche impazzite, nello smog che intreccia vite intense e difficili, nei colori e negli odori delle spezie, nei profumi dei cibi più svariati, nelle tradizioni più radicate, in sussurrati cori di allegre voci canterine.
L’acqua calda di una doccia argentata lava via, delicatamente, polvere e pensieri dei più fortunati. Altre anime, più sventurate, non hanno nemmeno un po’ d’acqua fredda e sono alla ricerca di un catino che possa raccogliere qualche goccia di refrigerio. Vocii arrivano da corti impolverate e solitarie, note dolcemente canticchiate attraversano fini merletti appesi a finestre accostate per proteggere dalla notte i lucidi capelli di una ricca e fortunata fanciulla ancora addormentata.
In una terra tanto affascinante quanto ostile, Anand fa, agisce, lavora, fatica, costruisce, porta avanti la sua fabbrica a pieno ritmo e velocità. Come un pioniere, ha scalato montagne di difficoltà, di ostacoli e burocrazie, per far emergere dalla povertà tante famiglie, tanti operai che lo seguono e lo rispettano. I fidati Ananthamurthy, l’amministratore, e la signora Padmavari, del reparto contabilità, lo affiancano da anni e sono pronti alla nuova avventura che si profila all’orizzonte. Ora è arrivato finalmente il momento di decollare sul mercato internazionale: i giapponesi sono interessati a investire nella Cauvery Auto, che Anand guida da tempo, ma per questo servono terreni per espandere i locali. Bisognerà lottare e sopravvivere, nella giungla di proprietari terrieri e mediatori. Accanto a lui una moglie capricciosa, viziata e insicura, Vydia, getta un’ombra sulla sua serenità e sulla certezza rappresentata dai figli che adora, quasi un miracolo in questa terra a volte tanto ostile.
sankaranNella cucina della sua casa avvolta dall’abbondanza, dove si sminuzzano verdure e verdurine, dove si sente il ribollire allegro delle salse sul fuoco, si frantumano riso e lenticchie riducendole in morbida e setosa pastella, si accarezza zenzero e frutta e si chiacchiera fugacemente prima di passare alle pulizie, ecco apparire Kamala, la cui vita si intreccia a quella di Anand, il padrone che l’ha accolta e che, generosamente, l’aiuta nell’educazione del figlio Narayan. Una vita che assomiglia a una fotografia in bianco e nero un po’ sbiadita.

Rimasta vedova, sola e senza nemmeno più poter contare sull’aiuto del fratello rimasto al villaggio, caduto recentemente in disgrazia, Kamala ha finalmente conquistato lo status di domestica presso la famiglia di Anand, dopo anni di duro lavoro fra polveri e rumori dei cantieri, sempre con il figlioletto al collo, dormendo su marciapiedi o in ripari improvvisati. Una donna forte e tenace, che solo raramente si era disegnata un puntino di kajal sulla fronte o aveva decorato la treccia dei suoi lunghi capelli con una ghirlanda di fiori di gelsomino. Oggi, però, la sua minuscola e tiepida casa dove poter rientrare, stanca, ogni sera, e dove sentire il lieve respiro del figlio addormentato, potrebbe non esserci più: l’affitto cresce, i soldi non bastano, la calunnia di un furto mai commesso da Narayan rischiano di distruggere tutto quanto duramente conquistato. Qualcuno l’aiuterà.
Se Kamala si destreggia con miseria, invidia e cattiveria, Anand deve fare i conti con la corruzione, con la dolce Kavika che apre uno spiraglio nella sua vita complicata, con sentimenti contrastanti di odio e rabbia, di voglia di ribellarsi, di urlare, di scappare, di rimanere vicino all’umanità, di mantenersi leale e corretto senza poterlo fare, di lottare comunque, di sfidare i cattivi, di avere una rivincita. Perché il vero culto, per il protagonista, “risiede nell’azione, nel lavorare ogni giorno per tirar fuori dal centro del suo essere il meglio che riusciva a dare”.
Di fronte a politici avidi, rapaci e senza scrupoli, a un mondo di minimi e di massimi, riuscirà a trovare la via per far trionfare la giustizia. Perché qualcosa si può sempre fare. Magari, avrebbe concluso Anand, con un po’ di astuzia, che spesso è la stessa di quei malfattori che cercano di avere la meglio, la stessa arma che, indifferentemente e inesorabilmente, gli si rivolta contro.
A difesa della speranza, sempre, senza perdere di vista la realtà.

Lavanya Sankaran, La fabbrica della speranza, Marcos y Marcos, 2014, 430 p.

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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