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CAPITOLO VII – Il tempio nascosto

Di fronte a loro apparve dalle ombre una sorta di altare in pietra. Era grande, costituito da una massiccia lastra di forma rettangolare che poggiava su due blocchi squadrati posti alle due estremità della tavola. Subito dietro l’altare spiccava un’imponente colonna cilindrica, probabilmente in granito, alta circa una decina di piedi e sulla cui superficie si distinguevano numerosi bassorilievi. A destra invece, distanziato di una decina di passi, un gigantesco totem, scolpito su una colonna calcarea generata dall’unione tra una stalattite e una stalagmite, era seminascosto dall’oscurità. Il totem raffigurava una strana chimera i cui tratti erano stati probabilmente modificati dall’azione dell’acqua che colava incessantemente dall’alto della colonna facendola brillare alla luce delle lanterne. Dalla parte opposta, a sinistra dell’altare, la superficie nera e perfettamente ferma del lago completava la scena.
I tre uomini erano nuovamente ammutoliti. Restarono immobili a guardare quella visione per parecchio tempo.
Storditi dalla sorprendente scoperta, non si accorsero che qualche passo più in là, dietro la colonna di granito, una strana creatura quasi completamente avvolta nel buio li stava osservando.

Greenstone si avvicinò all’altare. Sul ripiano di pietra si notavano quattro grossi fori levigati, probabilmente dei passanti, e dei legacci di cuoio quasi del tutto consumati che penzolavano dal bordo della tavola, l’uomo vi poggiò sopra la lanterna e, nel farlo, notò diverse macchie scure sulla superficie.
«Questo è sangue!» constatò.
«Mon Dieu, Joseph! Ci troviamo davanti a una scoperta sensazionale: un antico altare sacrificale inca situato sottoterra… Il primo mai scoperto finora!» esclamò il francese in preda all’eccitazione.
«Jacques, forse l’altare sarà antico. Ma questo sangue di sicuro non lo è…» osservò Sewell.
«Ma… che volete dire?» chiese turbato il francese.
Greenstone tirò fuori un coltello dall’astuccio di cuoio che portava agganciato alla cintura e iniziò a grattare il sangue essiccato dalla pietra: «Vedete Jacques, in questo avvallamento della pietra ce n’è una discreta quantità, una vera e propria pozza di sangue… L’incrostazione poi s’allarga sino al bordo della tavola disegnando dei rivoli. Se date un’occhiata in basso, ai piedi dell’altare, ci sono tracce di gocciolamento. Non pensate che ci sia un po’ troppo sangue per essere solo la testimonianza di un evento vecchio di secoli?»
Verdoux non rispose, fissava quelle macchie nerastre cercando di dare un senso logico alle parole dello scozzese.
Sewell continuò: «Ma la cosa che mi ha tolto ogni dubbio è questa…» indicò una chiazza biancastra che ricopriva parte dell’incrostazione, «È muffa! In altre parole la dissoluzione di questo sangue non è iniziata secoli fa… direi piuttosto settimane o giorni!»
Jacques era pallido, gocce di sudore gli imperlavano la fronte a dispetto del freddo che avvolgeva l’intera caverna. Per Greenstone non era chiaro se l’aspetto precario dell’amico fosse imputabile al retaggio della malattia o alla forte emozione del momento. Alla fine pensò che probabilmente fosse la combinazione delle due cose.
Il francese farfugliò qualcosa nella propria lingua che si rivelò incomprensibile alle orecchie dei due compagni, frugò nella bisaccia ed estrasse la bottiglietta di assenzio. Ne bevve due sorsate e, per la prima volta, l’offrì allo scozzese che declinò.
Juan, che si era spinto in avanti in perlustrazione, chiamò i due scienziati: «Professori, da questa parte… prego venite!»
Sewell imbracciò il fucile e corse dall’indio aggirando l’altare, subito imitato da Verdoux.
Arrivarono dove li attendeva Juan. Poco più avanti sulla destra dell’altare, tra la colonna di granito e il totem, alla luce delle lampade apparve un ampio braciere circolare ricavato da un unico blocco di roccia, alto più o meno tre piedi e largo il doppio, l’interno era completamente annerito e conteneva tracce di cenere. Addossata al braciere c’era un’enorme catasta di legna.
Greenstone aveva in testa mille domande a cui non sapeva dare nemmeno una risposta. Tutta la situazione aveva preso una piega strana, quasi surreale: dall’iniziale e ovvio stupore, i tre uomini erano passati a una condizione di tacita accettazione di qualsiasi nuova eventuale sorpresa dovesse via via manifestarsi.

Juan si rivolse ai due esploratori, gli occhi gli brillavano più del solito: «Ora potremo illuminare la caverna!»
«E magari scaldarci un po’…» aggiunse il francese rinfrancato dall’assenzio.
I tre non persero tempo e si adoperarono per accendere subito un fuoco. L’esigenza di doversi scaldare e l’occasione ghiotta di poter finalmente rendere visibile buona parte della caverna li distolsero, almeno momentaneamente, da dubbi ed elucubrazioni sulla provenienza di quelle tracce e l’origine di quegli oggetti apparsi dal nulla.
Misero nel braciere tutta la legna che poteva contenere e, utilizzando le lampade a petrolio, appiccarono il fuoco.
In pochi istanti la legna perfettamente asciutta iniziò a bruciare con vigore e ci vollero alcuni minuti perché le fiamme si sviluppassero fino a creare lingue verticali alte dieci piedi. Ben presto un calore confortante si propagò nello spazio tutt’attorno al braciere. Greenstone stava argomentando sul modo di sfruttare al meglio il fuoco nel prosieguo dell’esplorazione, quando le parole gli si smorzarono in gola. Rimase immobile, la bocca aperta come inceppata nel vano tentativo di terminare un discorso ormai inutile, lo sguardo fisso davanti a sé.
Il bagliore del fuoco si era intensificato a tal punto da permettere alla propria luce d’invadere gran parte della vasta caverna che fino a poco prima era stata celata dall’oscurità. Fu così che i tre esploratori videro apparire la cosa più strabiliante che mai avrebbero potuto immaginare.

Ora davanti a loro, a una cinquantina di passi lungo la linea retta che univa altare, colonna e braciere, era appena apparsa una gigantesca costruzione fatta di grossi blocchi di pietra intagliati. Era addossata alla parete della caverna che si sviluppava in altezza per alcune decine di iarde.
Il manufatto aveva l’aria d’essere antichissimo. La sua forma a piramide lo faceva assomigliare a un tempio maya piuttosto che un edificio inca, tuttavia delle costruzioni inca conservava l’assemblaggio e la forma delle pietre. Al centro spiccava un ampio ingresso che lasciava intuire ai tre spettatori una grande profondità di spazio al suo interno. Il portale era a forma di trapezio ed era sovrastato da un pesante architrave in pietra squadrata come il resto dei blocchi che costituivano il muro di facciata del palazzo, tutti sagomati al punto da ottenere un incastro perfetto. Il muro di facciata, che si elevava verticalmente pendendo verso l’interno, si estendeva dai due lati del portale fino a fondersi con la parete rocciosa ai margini dell’enorme nicchia in cui si trovava l’edificio.
L’imponente costruzione si elevava su quattro volumi concentrici a base quadrata e ampiezza decrescente, con tre larghi terrazzamenti che nel complesso ricordavano appunto un tempio maya. Le facciate dei tre volumi superiori poi, anch’esse inclinate verso l’interno, accentuavano l’impressione della piramide.
Al centro delle tre facciate superiori erano collocate due grandi aperture circolari che davano all’intero edificio, come se ce ne fosse bisogno, un’aria sinistra. Ricordavano vagamente le orbite vuote di un teschio gigante, orbite dietro le quali dominava il buio più totale.
Ma non era finita lì!
Sul lato destro del tempio, distanti poche iarde e anch’esse addossate alla parete della grotta, si scorgevano delle piccole costruzioni in pietra, distribuite lungo il perimetro meridionale della caverna e disposte secondo un preciso schema geometrico. Erano una sorta di cubi costruiti con pietre posate a secco e privi di finestre, vi si poteva accedere all’interno soltanto attraverso delle strette aperture poste sui tetti piani.
L’intero scenario aveva tutta l’aria d’essere una specie di antico villaggio, probabilmente legato alla civiltà inca, raccolto attorno a un tempio dalle origini incerte.
In quei territori la cosa di per sé non era da considerarsi eccezionale, molti siti archeologici erano stati appena scoperti e altri lo sarebbero stati negli anni a venire.

Dunque, c’era un villaggio e un tempio a forma di piramide, poi c’era un lago sulla cui riva era posto un altare sacrificale. E tutto quanto racchiuso dentro un’immensa e buia caverna nelle viscere di una montagna. Ce n’era abbastanza per far precipitare le menti dei suoi scopritori nella confusione più totale.
Peraltro, Greenstone e compagni erano talmente rapiti e sconcertati da quella visione che non s’accorsero d’essere osservati a loro volta.

Erano rimasti in religioso silenzio per parecchi minuti, l’unico rumore era il crepitare del fuoco nel braciere, poi lo scozzese finalmente parlò: «Credevo d’essere preparato a tutto, ma questo non me l’aspettavo… Questa scoperta cambia i nostri piani…» si passò una mano sul volto e poi riprese, «Dobbiamo capire cos’è questo posto! Voi che ne dite Jacques?»
Il francese era sempre più pallido e sudava copiosamente, si schiarì un poco la voce prima di parlare, «Joseph, lasciatemi pensare… Dovremo esaminare bene tutta l’area, occorrerà disegnarla e prendere appunti. Cercare reperti che documentino le cause di questo insediamento… Ci vorrà del tempo.»
Sewell era pensieroso, continuava a osservare il tempio addossato alla parete di roccia, poi abbozzò una proposta: «Abbiamo il fuoco e abbiamo l’acqua, potremmo accamparci qua.»
«Questo posto non mi convince, Joseph! Come avete detto anche voi, ci sono tracce di qualcosa avvenuto non troppo tempo fa… Il sangue… e tutta questa legna per il fuoco, sicuramente è stata portata qua di recente.»
«Concordo con voi Jacques, ma non possiamo andarcene senza prima aver cercato di capire cosa abbiamo trovato… Siamo scienziati!»
Jacques Verdoux, seppure riluttante, dovette dargli ragione. Era vero: il credo di entrambi imponeva la ricerca della verità in ogni situazione, e quella scoperta era un’occasione troppo ghiotta per non farsi coinvolgere.
«In ogni caso staremo in guardia. Abbiamo le armi, se sarà necessario le useremo!» chiarì Sewell per rassicurarlo.
«Io non ho mai sparato Joseph.» confessò il francese.
«Non occorre che lo facciate Jacques, ci siamo già io e Juan per questo!» diede un’occhiata all’indio e aggiunse, «Dovremo comunque tornare al pozzo e aggiornare Pedro sulla nuova situazione. Lui ci calerà l’altro fucile, le provviste e quant’altro sarà necessario.»
Detto questo, Greenstone estrasse dal taschino l’orologio, un Waltham con le iniziali del padre incise sul coperchio d’acciaio placcato in oro, le lancette indicavano poco meno delle sei del pomeriggio.
«Se ci muoviamo adesso, quando saremo fuori sarà già buio… ma almeno arriveremo al pozzo dove potremo rifocillarci e trascorrere la notte senza problemi. Domattina torneremo quaggiù equipaggiati a dovere!»
Jacques e Juan annuirono, poi insieme a Sewell s’accinsero ad abbandonare il luogo della scoperta.
S’avviarono così nella direzione da cui erano venuti, non prima d’aver dato un ultimo sguardo a quelle misteriose pietre.

Il fuoco nel braciere continuò ad ardere per diverse ore dopo che i tre uomini se n’erano andati.
Due piccoli occhi obliqui rimasero a osservare quelle fiamme a lungo. Brillarono di luce riflessa fino a che l’ultima brace si spense facendo ripiombare tutto quanto nell’oscurità più assoluta.
Solo allora, un’ombra nell’ombra si mosse lentamente verso le acque del lago, vi s’immerse e scomparve nell’abisso.

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Carlo Tassi

Ferrarese classe 1964, disegna e scrive per dare un senso alla sua vita. Adora i fumetti, la musica prog e gli animali non necessariamente in quest’ordine. S’iscrive ad Architettura però non si laurea, si laurea invece in Lettere e diventa umanista suo malgrado. Non ama la politica perché detesta le bugie. Autore e vignettista freelance su Ferraraitalia, oggi collabora e si diverte come redattore nel quotidiano online Periscopio. Ha scritto il suo primo libro tardi, ma ha intenzione di scriverne altri. https://www.carlotassiautore.altervista.org/

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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