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Da: Valter Zago Coordinatore Circolo del Delta Sinistra Italiana

Anticipando il carnevale, il ‘tuttofare’ Marco Fabbri ha deciso di mascherarsi opportunamente da Masaniello contro il Polo museale dell’Emilia-Romagna, reo di volersi riappropriare di ben due crateri attici del Museo di Comacchio. Si è quindi appellato direttamente al popolo del Trepponti perché coralmente si lasci guidare da lui contro tale spoliazione.

Con impareggiabile sincronismo politico si sono fulmineamente affiancati a Fabbri i consiglieri regionali Calvano e Zappaterra. Ed è diventato così chiaro anche ai più ingenui che gatta ci cova e che si è aperta una giostra studiata minuziosamente a tavolino che ha di mira non il destino museale di Comacchio, ma l’imminente tornata elettorale.

Del resto è evidente che l’interesse archeologico della Giunta Fabbri è pari a zero. L’episodio più recente che purtroppo inconfutabilmente lo attesta è l’autorizzazione rilasciata dal Comune di Comacchio per coprire, in piena zona archeologica, le vasche dell’ex zuccherificio con 250.000 metri cubi di terreno di dubbia provenienza, senza provvedere preventivamente ad una ricognizione archeologica del sito. Lo stesso dicasi per l’areale altrettanto ricco di storia dell’ex Monastero di Sant’Agostino. Chi può escludere a priori che non esista ancora, ad esempio, l’originaria pavimentazione della chiesa del convento? Marco Fabbri?

Un anno fa l’aspide, il bronzeo cannone cinquecentesco di fattura veneziana, che faceva bella mostra di sé all’ingresso degli uffici della Capitaneria di Porto Garibaldi è stato trasferito a Ravenna dallo stesso Polo museale, che ora vuole sottrarre a Comacchio i due crateri attici, senza che il Sindaco Masaniello dicesse bau. Nello stesso periodo il Comune di Comacchio ha intimato lo spostamento – verso forse una discarica? – del Riccardo I, l’ultima comacina da mare comacchiese, che ora versa in uno stato di totale abbandono.

Ancora, la Soprintendenza archeologica, contrariamente all’impegno che aveva inizialmente assunto di musealizzare in sito la seconda nave romana rinvenuta a Santa Maria in Padovetere, ha successivamente provveduto a ricoprirla e a sottrarla alla vista di tantissimi potenziali visitatori nel silenzio assordante in primo luogo del Sindaco Fabbri. A Pisa le navi romane, rinvenute ben dopo quelle comacchiesi, sono state musealizzate da tempo. A Comacchio invece vengono risotterrate.

Il destino delle imbarcazioni storiche di Comacchio è pari ormai ai tre segreti di Fatima. Della prima nave romana di Valle Ponti, a distanza di trentotto anni dal suo rinvenimento, sappiamo meno della seconda. Per non parlare della terza imbarcazione ubicata presso la stazione da pesca di Confina. Si sa che c’è, ma non si sa cosa sia. Se porta in dote un carico, oppure no. E’ dal 1986 che ne è previsto infruttuosamente il recupero.

Evidentemente chi dovrebbe conservare memoria di questo, come di tanti altri impegni che dovrebbero configurare una vera e propria politica culturale e turistica di Comacchio e del Delta, ne ha perso memoria. Per non parlare dell’appartenenza di Comacchio al Ducato Estense. Allora, a Magnavacca, faceva bella mostra di sé la Delizia delle Casette. Perché il Comune di Comacchio non ha presentato sulla legge franceschiniana di valorizzazione delle sue principali emergenze un progetto di ricognizione archeologica della perimetrazione e delle pertinenze di questa Delizia perduta? Il Museo di Comacchio è stato pensato e finanziato innanzitutto come Museo del Territorio. Come un’istituzione culturale ben più complessa e ricca di un mero museo archeologico.

Che fare allora con i nostrani smemorati di Collegno?

Per impedire che al Museo del Delta vengano sottratti i due crateri attici, la cosa migliore da fare è di rilanciarne il rapporto complementare con quello di Spina. Al meglio dovrebbe costituirne la vetrina permanente al mare, proprio laddove, a Comacchio e non altrove, sono state rinvenute le quattromila tombe della Città gemella di Adria. Care concittadine e cari concittadini di Comacchio e del Delta, se quaranta crateri attici, almen per cominciare, ci sembran pochi, urliamolo ai quattro venti.

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Riceviamo e pubblichiamo


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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