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E’ di qualche giorno fa la notizia, diffusa da Al Arabiya, un’emittente televisiva degli Emirati Arabi Uniti, di una donna egiziana costretta a lavorare vestendosi come un uomo per ben 43 anni. La notizia è legata al fatto che, a causa di tale situazione protrattasi nel tempo, la donna, Sisa Abu Daooh, 64 anni, è stata insignita dal governo egiziano del titolo di “madre ideale”. Questo perché Sisa ha dovuto lavorare, optando per la soluzione mimetica, per mantenere la figlia Houda e assicurarle una vita serena e dignitosa. Rimasta vedova quando era incinta, poco dopo la nascita della bambina, Sisa aveva indossato una lunga e coprente tunica, anonime scarpe maschili e un avvolgente turbante. Un copricapo che nascondesse capelli e lineamenti, che oscurasse ogni minima traccia di femminilità. Nessun segno di donna. In una parte del mondo dove la cultura più diffusa non vedeva di buon occhio le donne lavoratrici, Sisa aveva potuto svolgere, indisturbata, diversi lavori, dalla costruzione dei mattoni in un’azienda fino al lustrascarpe per strada, nella trafficata, turbolenta, difficile e frenetica città del Cairo. Inoltre, negli ultimi anni avrebbe aiutato anche la famiglia della figlia, che nel frattempo si era sposata, perché il marito aveva perso il lavoro a causa di una malattia.
Il riconoscimento di “madre ideale” le è stato conferito dalla Direzione della solidarietà sociale del governatorato di Luxor. Nella difficoltà e nel non senso, un segnale positivo.
Questa storia mi ha ricordato subito, oltre che la situazione di molte rappresentanti del gentil sesso in zone “difficili” del mondo, il drammatico ‘Osama’, un,intensa e cruda pellicola afghana del 2003, di Siddiq Barmak, dove tre donne (una ragazzina di 12 anni, la madre e la nonna), sopravvissute alla repressione delle manifestazioni di protesta organizzate dalle donne afgane all’inizio del regime talebano, non possono uscire di casa senza essere accompagnate da un uomo, pena una severa punizione, né, tantomeno, lavorare. Manca il cardine, un uomo, ed ecco allora che la madre (Zubaida Sahar) decide, insieme alla nonna, di travestire la giovane figlia da maschio: l’unico modo per procurarsi un lavoro e un po’ di pane per sopravvivere. Da quel momento, Maria (Marina Golbahari) si chiamerà Osama (nome dal destino tragico) e comincerà a vedere la vita con nuovi occhi. Dopo aver iniziato il suo nuovo lavoro come aiutante di un lattaio, Osama viene portata, insieme a tutti i maschi del quartiere, alla scuola religiosa “Madrassa”, che è anche un centro di addestramento militare… Qui, a differenza di Sisa, vi è un dolore penetrante, una pura tragedia, e se nascere donna non è mai semplice e può portare a incrociare difficoltà di vario genere, in alcuni paesi, come l’Afghanistan, può assomigliare a una vera condanna. Qui, infatti, la condanna è totale, senza via di scampo, perché, senza amore, senza sorriso, senza speranza e senza futuro, si cresce come un uomo, fingendo di esserlo, fino a quando la scoperta porterà a un’altra condanna, ancora peggiore. E, allora, si fissano il buio delle stanze, delle caverne, delle scuole religiose che non perdonano, dell’inganno per sopravvivere che non viene perdonato. Mentre a Sisa si’, è stato perdonato. Almeno in parte.
Avevamo anche già visto un’altra donna travestita da uomo che, da anni, svolgeva il lavoro di maggiordomo presso un albergo, e accarezzava pure l’idea di sposarsi. Il maggiordomo perfetto, Albert Nobbs, nella Dublino del 1890, un lavoratore impeccabile, perfetto perché discreto, attento, efficiente, preciso, silenzioso, perfetto forse proprio perché, in realtà, era una donna, che dall’età di 14 anni si vestiva da uomo, abbandonata dal marito di cui aveva preso sembianze e mestiere. La condizione femminile nell’età vittoriana era anch’essa scandalosa, fatta di abusi e soprusi verso il personale femminile che lavorava (poco e solo in posizioni basse e subordinate), di mancanza di diritto al lavoro e al decoro. Ancora oggi, e troppo spesso, bisogna giocare a ricoprire il ruolo di uomo, essere come un uomo, dal carattere forte (perché a molti pare che solo un uomo lo possegga veramente), dimostrare di assomigliarvi o, semplicemente, travestirsi da uomo, chi come Osama, chi come Albert, chi come Sisa. E anche se facendo questo si ha un qualche riconoscimento, opinabile e discutibile, bisognerebbe riflettere un po’ di più perché questo travestimento, fittizio o reale che sia, non debba essere più necessario. Progressi lenti ve ne sono, ma sempre troppo lenti.

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

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