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8 Febbraio 2014

Il freddo va di moda

Tempo di lettura: 4 minuti


neve-russia

Da MOSCA – La neve è una poesia. Una poesia che cade dalle nuvole in fiocchi bianchi e leggeri. Questa poesia arriva dalle labbra del cielo, dalla mano di Dio. Ha un nome. Un nome di un candore smagliante. Neve. (Maxence Fermine, Neve)

In parallelo alle Olimpiadi Invernali di Sochi, da un osservatorio privilegiato come può essere ora quello di Mosca e quando tutti i giornali parlano della Russia, delle sue posizioni intransigenti su numerose tematiche, è difficile non percepirne il freddo, il ghiaccio, la neve, le temperature polari.
L’inverno russo è un’idea di questo immenso Paese, parte integrante della sua forte identità, e, oggi, ne è forse anche diventato un vero e proprio brand. Questo freddo diventa sinonimo di tante cose insieme, di bellezza, di spensieratezza, di gioco, di salute – vigore, freschezza, fantasia, vivacità, colore, guance rosse che si osservano sui volti dei pattinatori delle piste del Gorky Park – e, non da ultimo, di moda. Qui si è davvero imparato a vendere il freddo, un’arte e un business.
Neve russa, foreste russe, montagne russe (non nel senso di ottovolanti, ovviamente, che, peraltro, i russi chiamano amerikànskije gòrki, ovvero “colline americane”…), giochi d’inverno russi, colbacchi russi, stivali russi, vodka ghiacciata russa. Dobbiamo correre ai ripari. Fa davvero freddissimo.
A meno ventisette gradi sotto lo zero, ci avventuriamo, allora, alla ricerca del colbacco perduto, perché qui senza uno di essi non si può reggere davvero l’inverno… Ne scopriamo una varietà incredibile, un copricapo con una sua storia. Da ragazzini, quando “militavamo” nelle Giovani Marmotte, legavamo questo copricapo a quello di Davy Crockett. Eravamo orgogliosi di possederne uno quando, con gli scout, correvamo su e giù per le montagne. Ma questo cappello di pelliccia con una specie di codina è un’altra cosa, qualcuno di noi si avvicinava maggiormente al copricapo russo se indossava una sorta di berretto da aviatore con i paraorecchie (in russo, ushanka). Il suo progenitore, il treukh, divenne popolare già nel XVII secolo. Questo colbacco di pelliccia, solitamente di pecora, sul davanti era adornato da un ampio orlo di pelo, sulla nuca si allungava in una falda che arrivava fino alle spalle e le orecchie erano protette da due paraorecchie, legati sotto il mento per proteggere la gola dal vento e dal gelo. L’ushanka è in uso ancora oggi in diversi colori (grigio per la polizia, nero per la marina). I soldati che devono stare di guardia in piedi al gelo, con i paraorecchie sollevati, risolvono il problema indossando un cappello di una misura maggiore, che scende sulle orecchie e in tal modo impedisce loro di congelarsi. Lo notiamo quando passiamo, intirizziti, nella Piazza Rossa e osserviamo queste guardie immobili non solo per ruolo e funzione ma anche forse un po’ per il freddo… Dal guardaroba militare l’ushanka era passato presto in quello civile. Durante il periodo dell’Unione Sovietica, questi cappelli di pelliccia, di pelo di renna, di castoro, di topo muschiato e di altri animali erano indossati dalla maggioranza della popolazione maschile. Non meno amato era ed è il colbacco del Kuban (kubanka). Giunta dal Caucaso, la kubanka o papakha era un attributo dei Cosacchi del Kuban (da cui prende il nome). La papakha classica è un copricapo di forma cilindrica dalla sommità piatta, di astrakan.

Fin dal periodo sovietico, fu straordinariamente popolare la versione femminile della kubanka, fatta di pelliccia a pelo lungo o di volpe bruna. Questo accessorio divenne di moda grazie ai costumisti della Mosfilm, storico studio cinematografico nato a Mosca nel 1923: lo indossava infatti la protagonista di un film molto amato da tutti i russi, Ironia del destino. Io ricordo anche quello della bella Lara del Dottor Zivago. Oggi questo tipo di kubanka è tornato di grande attualità: si può tranquillamente tirare fuori dall’armadio quella di volpe bruna della nonna, della vecchia zia o della mamma, toglierla dalla sua scatola di latta (che si dice sia il modo migliore per conservarla, per non sciuparne forma e pelo) e indossarla con un cappotti classici o mantelle stile anni ’60. Anche l’ushanka ritorna. Celebri marchi come Bally e Ralph Lauren invitano a completare il proprio look invernale con i cappelli paraorecchie. Anche alcune creazioni di Chanel ricordano questo copricapo.
Ci sono, poi, gli stivali di feltro, qualcuno ha scritto, simpaticamente, Valenki alla riscossa. Perché questi stivali si chiamano, appunto, Valenki, le tradizionali calzature russe che tornano di moda, nei loro più svariati colori. Se ne trovano di finemente ricamati, decorati con stampe o rifiniti con pelliccia. Non solo tengono i piedi caldi e comodi durante l’inverno (sono fatti di feltro di lana di pecora e massaggiano leggermente i piedi camminando), ma sono anche considerati delle opere d’arte folkloristiche, di moda e facilmente personalizzabili, perché alti, bassi, larghi, stretti, sotto o sopra il ginocchio. Diffusi fra tutte le classi sociali, stanno aumentando in popolarità, tanto da fare ormai seria concorrenza ai modaioli Ugg australiani. E poi sono spettacolari, perché uguali, non vi è un destro e un sinistro e, credetemi, che quando siete impacchettati per uscire al freddo non dover scegliere quale stivale va indossato per primo è davvero comodo. Acquistatelo, tuttavia, in una taglia più grande se volete indossare calze pesanti… con galosce di gomma sopra se piove. Li potete trovare nei mercatini di souvenir, come quello di Ismailovo a Mosca, o in alcuni negozi del centro. Se vi interessa capire la loro origine e storia e come sono prodotti potete anche visitare il museo dei Valenki, vicino alla stazione dei treni Paveletskaya. Se, infine, siete particolarmente curiosi, vi sono anche canzoni russe dedicate ad essi (di Alexandra Strelchenko o di Efrosinia).
Perché il freddo, che va sempre più di moda, si compra e… si ve(n)de.

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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