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Climbatize (The Prodigy, 1997)

Non so dire il perché, ma mi ritrovo a correre in mezzo a una fitta boscaglia.
Accade proprio adesso. Vedo una luce crepuscolare creare ombre nere laddove la vegetazione appare impenetrabile, per il resto il cielo è tagliato fuori dalle fronde degli alberi che s’intrecciano come una spessa ragnatela che incombe sulla mia testa.
Sono alberi giganteschi, antichi, e occupano tutto lo spazio circostante.
Tutt’intorno c’è un bosco. È costituito in prevalenza di abeti e larici dalle chiome cadenti e intricate, con grosse porzioni di radici che affiorano dal terreno creando appigli e ostacoli su cui è facile inciampare. Il sottobosco poi è disseminato di felci e soprattutto di rovi forniti di lunghe spine acuminate che sconsigliano qualsiasi movimento distratto.

Ma perché mi trovo in questo posto? Mi soffermo su questa domanda e cerco di riflettere.
Sono stremato, ho il fiatone… Ma sto correndo da quanto? E per andare dove?
Ho male alla milza, un male cane come se me l’avessero spappolata. Credo di non aver mai corso così tanto in tutta la mia vita. Anche le gambe mi tremano e mi bruciano per lo sforzo della salita. Così mi rendo conto che sto raggiungendo la cima di un’altura.
Cerco di fare dei lunghi respiri per riportare il battito del cuore ad un ritmo più regolare, ma l’idea di fermarmi a prender fiato non mi sfiora minimamente.
Continuo a correre, nonostante tutto.
È difficile riordinare le idee. L’impulso irresistibile rimane quello di correre. Poi comincio a pensare che la questione vera non sia tanto dove sto andando, ma piuttosto da dove vengo.
Così raggiungo la consapevolezza che sto fuggendo, che questa sorprendente volontà di continuare a correre – quasi estranea a me stesso – che mi sta dilaniando ogni muscolo e rischia di farmi scoppiare cuore e polmoni, altro non sia che un’efficace miscela d’istinto di sopravvivenza e terrore puro.
Non so da cosa sto fuggendo, forse la mia mente ha messo una barriera tra me e l’oggetto del mio terrore. Forse questa barriera mi sta proteggendo dalla pazzia.
Eppure la domanda permane, anzi si fa più insistente. È una lotta interiore: una parte di me corre, scalcia, muove il mio corpo come i fili di una marionetta, l’altra parte vorrebbe capire, voltarsi indietro, fermarsi per vedere, per sapere.
Poi eccomi in cima. La foresta è alle mie spalle. Davanti a me un’ampia distesa di nuda roccia e sopra di essa soltanto il cielo notturno e il riverbero di una luna piena insolitamente grande e luminosa. Fine della corsa, adesso si può solo scendere e tornare indietro.

M’accorgo solo ora di aver esaurito tutte le forze, così mi sdraio per terra e aspetto. La luna mi sta fissando, la sua luce fredda m’investe inchiodandomi alla verità.
Guardo le mie mani lorde di sangue, così come i brandelli di vestiti rimasti addosso.
Il sapore della carne è ancora nella bocca, dolce, irresistibile, eccitante.
Le viscere m’implorano di nuovo: per tornare in forze devo mangiare, anche se ciò significa dover fuggire ancora, ogni volta…

Perché è risaputo. L’eterno gioco della caccia, quando il cacciatore diventa preda e la preda diventa cacciatore.
Dopo il meritato riposo, tornare giù, nel villaggio a valle, osare nell’oscurità, guadagnarsi il pasto e divorarlo in fretta… prima di ricominciare a fuggire e nascondersi nel bosco.

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Carlo Tassi

Ferrarese classe 1964, disegna e scrive per dare un senso alla sua vita. Adora i fumetti, la musica prog e gli animali non necessariamente in quest’ordine. S’iscrive ad Architettura però non si laurea, si laurea invece in Lettere e diventa umanista suo malgrado. Non ama la politica perché detesta le bugie. Autore e vignettista freelance su Ferraraitalia, oggi collabora e si diverte come redattore nel quotidiano online Periscopio. Ha scritto il suo primo libro tardi, ma ha intenzione di scriverne altri. https://www.carlotassiautore.altervista.org/

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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