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Il gioco di Humbod
O il fantasma del quarto tomo

Elias Humbold e Gershom Loran erano bambini, e subito amici, o molto di più. Due gemelli tanto erano inseparabili. Abitavano a Brooklyn nel medesimo caseggiato. Le loro famiglie erano amiche da sempre, il padre dell’uno e il padre dell’altro erano entrambi rabbini, entrambi nati e cresciuti a Muranow, il grande quartiere ebraico di Varsavia e partiti per le Americhe appena appena in tempo.

A Brooklyn le due famiglie frequentavano due diverse sinagoghe, ma Elias e Gershom andavano alla stessa scuola della Torah. Insieme, Elias e Gershom si prepararono per diventare “figli del Comandamento”, discutendo tra loro sul Libro ma soprattutto, e in segreto, interrogandosi sul tema dei temi: credere o non credere. Nel giorno del Bar Mitzvah, riposti i teli bianchi della cerimonia, tornarono verso casa confessandosi il loro precoce ateismo; così, erano arrivate alla medesima conclusione. Ma se dio non esisteva, correva occuparsi di tutt’altro, o forse no, si potevano studiare i testi sacri con un occhio diverso. Scelsero quindi la scienza e la ricerca al posto della fede dei padri. Anni dopo, quasi come pegno della loro amicizia, si iscrissero alla stessa università e allo stesso corso di laurea. Elias Humboldt e Gershom Loran conclusero in modo più che brillante il loro iter universitario, e subito proseguirono il cammino scegliendo il medesimo percorso di specializzazione, il più difficile e pieno di insidie. Si diplomarono a distanza di poche settimane l’uno dall’altro e, nemmeno a farlo a posta, vinsero entrambi il loro primo incarico presso l’Istituto di Filosofia e Teologia di un prestigioso ateneo.

Insieme, sedendosi ai lati opposti della stessa scrivania, studiarono miti, dei, eroi e religioni popolari; e lavorarono sodo, pubblicando a quattro mani i primi articoli e presero a scalare la lunga scala della carriera universitaria.

A vederli da lontano, sempre a braccetto, o a leggere i loro lavori che già erano discussi animatamente nella comunità scientifica, o udendo i loro interventi a qualche congresso, Elias & Gershom davano l’idea di essere interscambiabili, due metà della stessa mela. In realtà, Elias e Gershom erano affatto diversi. Gershom era geniale in tutte le sue manifestazioni, mentre il suo amico e gemello Elias era quello che si è soliti definire un diligente sgobbone. Elias aveva una volontà di ferro, una inestinguibile voglia di arrivare, anche se godeva senza alcun merito delle intuizioni di Gershom.

Tutto procedeva a meraviglia, la coppia mieteva successi, mentre l’intera disciplina sembrava accecata dalla luce dei loro luminosi saggi. Non fosse stato per uno spiacevolissimo accadimento. Quando morì in un banale incidente d’auto, il giovane professore Gershom Loran aveva appena compiuto trent’anni. Elias li compì a sua volta proprio il giorno del funerale dell’amico. In quell’occasione pianse molte lacrime, ma la sera stessa fece una capatina nello studio che condividevano all’istituto. E ora? Che ne sarebbe stato di lui? Per anni aveva copiato il compito del compagno di banco e ora il compagno lo aveva abbandonato. Da solo non sarebbe andato da nessuna parte. Si sentì perduto. Perché Elias, questa era la dura realtà, non aveva un’idea in testa. Pianse di rabbia e si precipitò alla scrivania. Aprì tutti i cassetti e raccolse tutti gli appunti dell’amico. Con quelli, solo con quelli, ce l’avrebbe fatta ad arrivare in cima.

Trentotto anni più tardi, Elias Humbold chiuse il portatile e si diede una fregatina di mani. In pubblico gli riusciva a stento evitare quel tic puerile e vagamente ecclesiastico, ma ora era solo, nella sua bella casa, circondato ai quattro lati dai suoi amati libri. Quello non era proprio un giorno come gli altri e una fregatina, anche due pensò, gli erano ben concesse. Il suo saggio “Ultime note sul Ramo d’oro di Frazer”, il lavoro che da anni tutto il mondo accademico aspettava, arrivava finalmente al traguardo. Tutti gli ostacoli erano superati. Mancavano giusto le conclusioni – ma ce le aveva già in testa, una vera bomba in faccia a colleghi e concorrenti – e poco altro mancava. Una breve introduzione, acuta come si conviene, a tratti anche spiritosa; i ringraziamenti (ma poi chi mai avrebbe dovuto ringraziare?); e in calce  la bibliografia, un obbligo assoluto per un saggio di taglio divulgativo ma scientifico fino al midollo: almeno dieci pagine stampate in corpo 8, ma per quella era sufficiente un diligente lavoro di copia e incolla.

Elias riaprì il portatile, diede un’ ultima scorsa allo scritto in eleganti caratteri garamond. Gli venne una gran voglia di far festa.
Vale ricordare, magari a qualcuno può essere sfuggito, chi fosse, o fosse diventato, in quarant’anni di carriera il professor Humbold. Filosofo e antropologo, studioso dei miti greci preolimpici e assiduo frequentatore delle sterminate fonti talmudiche. Titolare di cattedra nell’ateneo fiorentino e alla Normale di Pisa, da due decenni percorreva il pianeta in lungo e in largo intervenendo a questo o a quel congresso e tenendo affollati seminari a Yale, a Cambridge, alla Sorbona. Che altro? Si era diplomato in violoncello e si esercitava con diligenza un’ora al giorno, dopo la prima colazione, tutti i santi giorni, tranne il sabato che di tutti i giorni è il più santo. In ultimo, ma al primo posto nel suo cuore, Elias Humboldt possedeva e amava di vero amore una preziosa biblioteca di pressappoco trentacinquemila volumi, ma preziosa è dire poco. Insomma, anche non aveste mai sentito il suo nome, non aveste letto i suoi interventi su qualche rivista o supplemento culturale, anche non vi foste imbattuti, in libreria o in biblioteca, nel suo agile e fortunato libretto “La mia cabalha portatile”, anche apparteneste alla purtroppo folta schiera degli ignoranti o dei disattenti, dovreste ormai convenire che l’esimio professor Elias Humbold era l’esatto opposto di un signor nessuno. Lauree ad honorem? Sette, se la memoria non mi inganna, e risparmiatemi la fatica e la noia di enumerarle.

Folle di studenti accorrevano per ascoltare le sue lezioni e i suoi seminari. Anche se Elias non amava i suoi studenti, amava solo i suoi libri. Molti giovani colleghi gli chiedevano, imploravano da lui due righe di presentazione e gli facevano leggere i loro goffi articoli. Il professore, sempre dalla cima di un doveroso distacco accademico, era però prodigo di consigli.
D’altro canto, l’invidia si sa è pianta tenace e inestirpabile, non mancavano neppure i detrattori. Qualche collega si era addirittura spinto a scrivere contro di lui e la sua dubbia scienza, ma era successo di rado. Anche perché  Humbold era potente, vendicativo, faceva paura. Molto più spesso si trattava di semplici allusioni, di mezze risatine, di un mormorio universitario diffuso. Ma è bene essere più chiari, diciamola quella famosa e terribile parola, il potente Humbold era lambito dal venticello della calunnia: che tutta la sua produzione scientifica non fosse farina del suo sacco ma solo il frutto – il furto – delle geniali intuizioni contenute  nei vecchi appunti del suo amico e collega morto prematuramente. Quella diceria lo perseguitava, e non da ieri, ma da sempre, dall’inizio della sua fulminante ascesa accademica. Ne aveva sofferto? No, almeno in apparenza; sarebbe stato come un darla vinta al nemico occulto, o peggio, un’ammissione di colpa. Lui non ci faceva caso, non rispondeva, non commentava. Il suo silenzio doveva significare a tutto il mondo la sua indifferenza e sicurezza. Ma non era così, sotto sotto Elias era roso da una rabbia sorda, un sentimento ottuso, un incendio che nessun successo pubblico e riconoscimento accademico erano riusciti a spegnere.

Ormai faceva buio, Elias spinse le due mani sul tavolo, si alzò dalla sedia, stirò le braccia. A quel lavoro aveva dedicato tre anni di vita, lavorando di piccone, scalpello e cesello, e finalmente quell’ opera destinata a fare scuola, a diventare testata d’angolo, era arrivata in porto. Si guardò attorno – abitava da solo, gli piaceva stare solo -guardò il suo orologio d’oro; le sei meno cinque, che altro gli rimaneva da fare? Una tisana al finocchio? Già presa e più volte. Le sue piante bagnate e accudite. Poteva quindi dedicarsi al suo passatempo preferito, giocare con i suoi libri. Si avvicinò al cuore della libreria e rese omaggio agli “antichi” e “rari”: le sue cinquecentine, i suoi sette incunaboli e, amate tra le amate, le sue edizioni Aldine. Possedeva non una, non due, ma ventitré opere stampate a Venezia dal sommo Aldo Manuzio. Seguendo in automatico il motto del grande stampatore, si affrettò lentamente verso l’Aldina più preziosa, accarezzò il delfino con l’ancora, sollevo con cura la coperta di pelle chiara, sfogliò le antiporte bianche e lesse in testa al frontespizio le dolci parole di ringraziamento che Aldo Manuzio indirizzava all’amico Erasmo.

Ora, era avvenuto che proprio Desiderius Erasmus avesse salvato Manuzio dall’arresto e dal carcere, e proprio in virtù del suo enorme prestigio. Lo riteneva il tipografo più innovativo, elegante e geniale di tutta Europa, cioè di tutto il mondo, e proprio a lui chiese di stampare la sua traduzione di Ecuba e Ifigenia di Euripide. Correva il 1507 e Aldo Manuzio inviava a Erasmo la prima copia dell’opera appena uscita dal suo torchio, vergando a mano una breve epigrafe. Proprio quel volume, con dedica autografa, era ora tra le mani del professor Elias Humbold. E quell’opera non si sarebbe più mossa da lì, a quanto stimava il suo geloso proprietario, se non per navigare dentro i confini della sua biblioteca. Il prezioso esemplare sarebbe rimasto sconosciuto e inaccessibile a bibliofili e studiosi. Perché? Semplicemente perché era suo, solo Elias lo meritava.
Attenzione però, Humbold non era un semplice collezionista di libri rari, era prima di tutto un giocatore. La libreria del professore non era mai a riposo – e nemmeno il professore: la sua grande biblioteca, invidiata da tanti colleghi e da più di una università americana, girava e rigirava su se stessa senza sosta. Ogni giorno, dalle sei alle sette di sera, minuto più minuto meno, il professore si dedicava anima e corpo alla sua creatura e al suo gioco.

Aveva un suo metodo, forse non proprio ortodosso, ma che egli riteneva il più efficace, il più divertente e, in qualche modo, il più democratico. Adocchiava un volume, a caso; gli dava una sfogliata tanto per rinfrescarsi la memoria, e sottoponeva il libro e un breve interrogatorio: “Hai qualche amico, parente o conoscente? A quale altro libro mi fai pensare?”. E dopo un giretto per le stanze della sua casa biblioteca, dopo aver brucato qua e la in quel prato verticale di carta e inchiostro: ecco, trovato! Afferrava il libro numero due e gli trovava posto accanto al primo. Al secondo libro poneva la medesima interrogazione. E subito andava alla ricerca del numero tre. E dal numero tre deduceva il numero quattro. Così, sotto l’impulso, dotto ma anarchico, del suo creatore, la biblioteca continuava a cambiare di faccia. Ogni giorno era uguale a se stessa, eppure un po’ diversa dal giorno precedente. Senza contare il benefico effetto di questo esercizio sulla già prodigiosa memoria del professore. Senza contare quanto quella quotidiana operazione migliorasse vieppiù la comprensione del quadro bibliografico complessivo della biblioteca. Il “metodo Humbold” apriva nuovi percorsi, inventava arditi collegamenti, portava alla luce nuovi tesori. Era qui che il suo genio si era finalmente svelato, anche se Elias lo chiamava semplicemente “il mio gioco”.

Per oggi poteva bastare, il risultato era più che soddisfacente: trentatré nuovi collegamenti, cioè nuovi apparentamenti, cioè nuove collocazioni. Doveva solo rintracciare e sistemare l’ultimo volume accanto ai suoi nuovi fratelli. Lo aveva già in mente: stanza cinque, terzo palchetto, quinto scaffale, quarto tomo partendo da sinistra. Elias tese il braccio senza esitare, afferrò con la mano destra il dorso del libro e iniziò a sfilare dallo scaffale il quarto tomo della Editio princeps di Aristotele, un’opera stampata attorno al 1496, naturalmente dal suo Manuzio. Fu in quel momento, proprio mentre estraeva con grande cautela il volume, che sentì quella voce, non una voce qualsiasi, ma una voce che non sentiva da trentotto anni e che credeva di aver distanziato per sempre. Ma la voce non si era perduta, e comunque ora era tornata e lo stava chiamando. Trentotto sono davvero tanti ma Elias Humboldt, pur avendoci messo tutto il suo impegno, non era riuscito a dimenticare Gershon Loran.

Il professor Humboldt accusò eccome il colpo, e senza sapere come si trovò seduto per terra a gambe larghe, la bocca spalancata e gli occhi fuori dalle orbite, come fulminato. Nella stessa posizione e con lo stesso sbigottimento di Mastro Ciliegia nell’udire la vocina del burattino uscire da quel ciocco di legno ben stagionato. “Come stai Elias, finalmente ti rivedo”, diceva la voce uscita dal libro. Ma subito il fantasma del quarto tomo si era piegato su Elias, lo soccorreva, gli tendeva inutilmente il braccio per aiutarlo a rialzarsi. Il professore non poteva rispondere al saluto, era già morto stecchito.

Quando, non avendolo visto alla consueta lezione mattutina, due zelanti assistenti andarono in visita a casa del professor Humbold , trovarono la porta di casa accostata e la donna che fungeva da cuoca e spolveratrice di libri in un mare di lacrime.
Dopo essersi addolorati a dovere, i due curiosi assistenti si accostarono alla scrivania e aprirono  – appena un’occhiatina – il portatile del professore. Rimasero molto stupiti a leggere la prima pagina di quel famoso saggio che tutti aspettavano. Il titolo era in grassetto: “Ultime e definitive note sul Ramo d’oro di Frazer”, ma poco più sotto, in corsivo, c’era il nome dell’autore: Gershon Loran.

© Francesco Monini

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Francesco Monini

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.

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