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2. SEGUE – Per questa seconda conversazione il punto di partenza è stato il saggio “Lavoro e Costituzione: le radici comuni di una crisi” di Roberto Bin, docente di diritto costituzionale al dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara.
Il lavoro e i lavoratori sono nominati 3 volte nei primi 4 articoli dei Principi Fondamentali della Costituzione Italiana.
Art. 1, comma 1: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.
Art. 3, comma 2: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Art. 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e propria scelta, un’attività o una funzione che concorra a l progresso materiale o spirituale della società”.
Inoltre i Costituenti, nella prima parte del testo costituzionale, che tratta i Diritti e Doveri dei cittadini, hanno riservato un intero Titolo – il terzo – ai Rapporti Economici: esso inizia significativamente affermando che “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” (Art. 35, comma 1).

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Roberto Bin

Il saggio del professor Bin affermando che proprio “i riferimenti al valore del lavoro che la Costituzione propone sin dai suoi articoli di esordio sono stati rapidamente “sterilizzati”, depurati dalla loro carica politica “positiva” di pretesa ad ottenere un lavoro”. Ma cosa significa questo?
“Non tutto quello che è contenuto nella Costituzione è stato considerato una norma giuridica. Che l’Italia sia una repubblica democratica fondata sul lavoro dal punto di vista politico vuol dire molto, dal punto di vista giuridico vuol dire pochissimo: non se ne ricavano comportamenti, sentenze, obblighi, divieti. Che il diritto al lavoro sia sancito in Costituzione non comporta che ognuno possa dire “ho diritto a essere retribuito per un lavoro”; l’unico uso giuridico che se ne è fatto è stato in senso negativo: non si può impedire agli altri di lavorare facendo i picchetti fuori dalle fabbriche”.
Non è questo però che i Costituenti avevano in mente…
“I Costituenti – risponde Bin – volevano soprattutto dare un messaggio storico e politico: dire che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, significa sancire che non è fondata sul censo, sull’ereditarietà dei titoli, ma è fondata solo su quello che ciascuno fa, su come lo fa e sull’obbligo di farlo, cioè quella solidarietà sociale che implica il lavorare. Perché non si lavora solo per sé stessi no?”

Dire che la Repubblica è fondata sul lavoro, significa quindi che per essere autenticamente democratica, essa persegue l’eguaglianza sostanziale fra i cittadini: un nuovo patto, non più fra cittadini e sovrano, ma fra le componenti sociali per un rinnovamento della struttura sociale da ricostruire dopo la guerra. È quasi scontato leggere nella relazione del comunista Palmiro Togliatti alla Prima Sottocommissione della necessità dell’affermazione, già nel preambolo, “di nuovi diritti della persona umana, il cui contenuto è in relazione diretta con l’organizzazione economica della società” e di operare attraverso la Costituzione “profonde trasformazioni economiche e sociali”. Forse è meno scontato citare Meuccio Ruini, il Presidente della Commissione dei 75 dell’Assemblea Costituente: “È necessario in una carta costituzionale stabilire fin da ora il principio che, oltre alla democrazia puramente politica, base di un nostro periodo glorioso di civiltà costituzionale, si deve oggi realizzare una democrazia sociale ed economica” .

Ecco il nodo evidenziato anche da Bin, quando scrive che “al riconoscimento di un certo tipo di diritti corrisponde di necessità l’esistenza di un certo tipo di rappresentanza”: un Parlamento eletto a suffragio universale avrebbe facilmente tutelato, se non ampliato, i diritti sociali. Ma allora come si spiega la situazione odierna? Oggi c’è il suffragio universale, ma sembra mancare la difesa dei diritti sociali e del lavoro. Secondo il costituzionalista di Unife, “il lavoro ormai è diventato una merce: è la vittoria di una certa visione dei valori politici. Il nostro assetto di valori, di principi, di regole giuridiche, anche costituzionali, è stato ampiamente riletto nella chiave di un’economia liberistica di mercato in cui il lavoro è sostanzialmente una merce, perciò ha perso il valore etico che aveva per i nostri Costituenti ed è diventato, invece, una delle componenti di costo della produzione”.
Perché questo arretramento sul terreno delle conquiste dei diritti sociali e del lavoro?
“Il problema è il bilancio dello Stato. Il bilancio è la contropartita dei diritti, di tutti i diritti, non solo quelli sociali: se non si dà la benzina alla polizia per le volanti la proprietà non è più garantita, se i giudici non vengono retribuiti i diritti perdono le proprie tutele, e così via. Tutti i diritti costano, il problema è che il costo si trasferisce nel bilancio e il bilancio si regge sulle tasse, perciò i diritti implicano tasse. Noi però viviamo in un’epoca in cui parlare di tasse significa bestemmiare, la conseguenza è che parlare di diritti vuol dire bestemmiare. Non è sempre stato così. La storia degli ultimi decenni però da questo punto di vista è dominata da un patto scellerato che ha dato luogo al liberismo finanziario, per cui oggi anche se gli Stati lo volessero non potrebbero tassare la ricchezza per il semplice fatto che la ricchezza se ne va: basta un click per spostare miliardi.”

Il professor Bin nel suo articolo cita anche “la sostituzione del lavoro con il consumo” concettualizzata da Bauman: la “progressiva sostituzione, al centro della scena sociale e politica, della figura del ‘cittadino’, come categoria storica fondamentale per l’ordine costituzionale, con la figura del ‘consumatore-utente’”. Dal punto di vista dell’etica sociale, mi spiega Bin, “cambia il fatto che il cittadino ha dei diritti che derivano dal suo essere parte dello stato politico, il consumatore o l’utente ha diritti perché ha stipulato un contratto con un soggetto privato, di conseguenza non c’è più nessuna rilevanza di valori nei rapporti fra utente ed erogatore del servizio, ma un rapporto contrattuale, tra l’altro spesso con un’asimmetria fra i contraenti, basta pensare alle multiutility. Senza contare che in questo modo restano fuori i diritti di coloro che non sono utenti e consumatori: quelli che non hanno soldi rimangono fuori da ogni circuito di garanzia. Per esempio, se le dicessero che il servizio ferroviario costa la metà perché serva metà del territorio italiano, se lei stesse nella metà che viene servita sarebbe contenta perché pagherebbe la metà per il suo servizio: ci sarebbe un accordo fra lei e l’erogatore del servizio, ma a danno di chi sta nell’altra metà, che non ha più voce. La cittadinanza è un’altra cosa: si vota tutti quanti – se vogliamo farlo – e il voto è uguale. Anzi era uguale, perché con la nuova legge sul finanziamento privato ai partiti del prossimo anno sarà sempre meno uguale: ciascuno lascia qualcosa della propria Irpef al partito che privilegia. Il che significa che un partito sostenuto dalle fasce più deboli, dai poveri, non avrà finanziamento, mentre il partito che rappresenta le fasce più alte, i pochi ricchi, avrà molto denaro. Democrazia?”. Provo a obiettare che i consumatori possono agire anche contro e non solo in solidarietà con i produttori. “Sì, certo, fa parte del gioco. Tornando alle multiutility, se lei prende uno dei loro Statuti scoprirà che dice che i consumatori sono gli stakeholders, i portatori di interesse dentro il gruppo, non solo: spesso si citano anche incentivi alla loro attività e corsi di formazione professionale per i loro rappresentanti. Conflitto di interessi? La solidarietà è anche conflittuale: entrambi sono favorevoli a obiettivi comuni, come la qualità del servizio, ma possono essere in disaccordo sulle modalità. Quello che in ogni caso viene tagliato fuori è l’ente politico: i comuni, gli enti locali, sono nati come erogatori di servizi pubblici, oggi però hanno perso la capacità di ingerirsi nella loro gestione, dal trasporto pubblico all’acqua. I servizi pubblici con le privatizzazioni escono così dal controllo politico”. Tento ancora di controbattere affermando che il controllo politico però in Italia molto spesso ha significato e significa purtroppo clientelarismo. “Non c’è dubbio. Se dovessi scegliere fra un sistema e l’altro non saprei quale scegliere, ma sta di fatto che non si può far finta di non vedere i problemi che sono l’effetto di una certa scelta di organizzazione dei servizi pubblici”.

La sostituzione dei cittadini-lavoratori con i consumatori ha poi conseguenze sul sistema di welfare: “il sistema di welfare si riduce sempre più – ed è una tendenza che c’è in tutti gli Stati – per il semplice fatto che il welfare è costo, il costo è tasse. Il welfare è un sistema di redistribuzione del reddito: esattamente il programma politico su cui è nata la nostra Costituzione. Oggi però a sentir parlare di redistribuzione del reddito c’è gente che sobbalza. Questo significa che noi non abbiamo le risorse per pagare i servizi pubblici, le prestazioni sociali: diventa una cosa quasi caritatevole, non più una questione che riguarda i diritti di cittadinanza”.
La sostituzione della politica con il mercato non è un’operazione neutra, ma un’opzione altamente politica che implica alcune scelte e anche un problema di rappresentanza.
“Certo – afferma Bin – pone un grosso problema di rappresentanza, che spiega anche perché le persone non vanno più a votare. I cittadini non vanno più a votare per il semplice fatto che non capiscono più a cosa serve la politica. Siamo vittime di un martellamento pubblicitario, la politica è diventata una parola sporca, significa rallentamento, interessi poco chiari: il mercato ha vinto in questa fase storica. Il mercato e la sua regolazione attraverso la mano invisibile sono ideologia pura, ma ne siamo preda: che la politica serva è un’affermazione che oggi sottoscriverebbe forse il 10% della popolazione italiana”.

La conclusione del professore è che non è nel richiamo alle disposizioni e ai valori costituzionali che si può trovare l’appiglio per puntellare il significato e la tutela del lavoro, ma allora dove? “È tutto da ricostruire, non che la possiamo trovare sotto gli alberi. Purtroppo c’è una sorta di mancanza di dimensione storica: la mia è la prima generazione che non ha vissuto le guerre del Novecento, con lei siamo arrivati alla terza, e sembra che ci siamo dimenticati che i diritti sono frutto di lotta, non si sono stati regalati dai padri Costitutenti. È necessariamente una questione di lotta, come dimostra anche il fatto che ora ce la si prende con i migranti: è una lotta deviata dagli obiettivi, volutamente deviata direi, perché il bersaglio diventano gli immigrati e non gli evasori fiscali. Tutto questo prima o poi necessariamente finirà. Come? Mi terrorizza solo pensarlo”.
Se fra le cause della situazione attuale ci sono la crisi della sovranità statale e la poca credibilità della nostra classe politica, secondo lui l’Europa, può giocare un ruolo, ma non scommette certo sui governanti, sui quali esprime un giudizio poco lusinghiero: “Nemmeno a livello europeo disponiamo di grandi statisti. L’unione Europea, secondo me, non governa niente. Siamo europeisti perché appartenere all’Ue ci ha impedito di fallire più volte in questi ultimi anni. La verità però è che l’Unione Europea è una creatura nata per il mercato e tutela il mercato. Qualsiasi decisione presa a livello europeo è una decisione che guarda agli interessi della libera circolazione del capitale non ai diritti sociali. I diritti sociali sono un disturbo: c’è una politica sociale ufficiale, ma è ridicola perché di fatto se si consente alle imprese italiane di delocalizzare in Polonia si mette in competizione l’apparato sociale italiano con quello polacco. A quale scopo? Perché aumenta la produttività. Intanto però diminuisce il livello di vita”. Insomma: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro, l’Unione Europea è fondata sul mercato e la concorrenza”. Per Bin si potrà andare avanti così finché “non interverrà ciò che è alla base dei diritti: il conflitto. Fino a quando finalmente i sindacati non si renderanno conto che la vera questione è mettersi d’accordo con i colleghi europei per una politica sociale comune, di diritti sociali in Europa non si parlerà”.

“Lavoro e Costituzione: le radici comuni di una crisi”, da www.robertobin.it/ARTICOLI

3.CONTINUA

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Federica Pezzoli

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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