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di Valentina Cioni

Entrare nelle acque verde smeraldo di Batis, appoggiando di tanto in tanto i piedi sulle pietre grandi e lisce che ricoprono il fondale. Alzare il capo e vedere come il sole taglia il profilo delle montagne verdi di Thassos, enorme macigno, che sembra galleggiare sul mare. Vedi perfino i profili dei pini sulle colline, ti illudi di non essere né vivo, né morto, ma di rimanere sospeso così, nell’eternità che è la Grecia.

È un momento idilliaco, che si interrompe mentre mi volto verso riva: ecco Batis Beach. Moderno stabilimento balneare, pieno di famiglie all’inverosimile in questa cacofonica domenica di fine estate. C’è chi cena al ristorante piantato sulle rocce, chi rimane sotto all’ombrellone a discutere con amici e parenti; chi saltella al piano bar con il disk jokey che propone pezzi di Battisti cantati da Lavredis Maheristas. “La canzone del sole” che più o meno doveva essere intitolata “Sinnefiorame ne mou oura”, mi ha fatto passare cinque minuti di risate e nostalgia.
Quando mi è stato chiesto il perché del mio attacco convulso di risate, ho cercato di spiegare che Battisti, artista italiano, era il famoso cantante della melodia.
E niente, mi faceva strano sentirla qui, a Kavala. A duecento chilometri dalla Turchia. In quel momento il dj ha iniziato a battere le mani, cantando “Un’avventura” (in idioma greco, s’intende). Ho capito che era il momento di abbandonare la compagnia e rientrare in città col bus.

Dopotutto, erano già le sette e non volevo rischiare di perdere l’ultimo mezzo che mi avrebbe portato indietro. La fermata è nel parcheggio dello stabilimento, al di sotto di una curva a gomito che gli autisti affrontano con estrema destrezza. L’autobus arriva in orario – nonostante nessun orario sia affisso – e, salendo, timbro il biglietto davanti all’autista, passando per i tornelli. Mi affretto a prendere il posto più simpatico, quello dietro al cestino per l’immondizia e al secchio per le pulizie. È, a mio parere, il posto più simpatico, dato che mi aspetto sempre che questi attrezzi possano cadere – ahimè, mai successo – e perché è sempre bello vedere la civiltà delle persone che buttano i biglietti usati e le cicche alla vaniglia, centrando il cesto con l’autobus in pieno movimento.

È bello prendere il bus anche di sabato, qui, a Kavala. Dal quartiere di Vyronas, attraverso una via silenziosa circondata dalle case degli operai turchi e mi fermo al palo della luce: la fermata del bus. Di solito, ci sono già due o tre vecchiette, che, vedendo il mio zaino da trekking sulla schiena, mi fermano, chiedono se sono una turista, per poi sbattere i bastoni da passeggio (o scuotere i carrellini a due ruote per la spesa) urlando: “Qui è il Congo! I nostri figli lavorano all’estero, in Germania! I Greci sono retrogradi, ma anche l’Italia non se la passa mica bene, eh!”.

Poi salgono sul bus, mentre io non ho neanche dato quattro tiri alla sigaretta, che mi vedo costretta a buttarla. Alzo gli occhi, e vedo l’anziana signora che abita nella casa di fronte che scuote la testa tra le sue rose: spesso, la mattina, mi dice che l’autobus sta scendendo dalla montagna. Io non so mai se crederle o meno: non ci sono orari alle fermate. Di solito scelgo di non crederle così accendo la sigaretta, l’autobus scende, e io sono costretta a buttarla. E lei a credermi fessa.

Ripeto: è sabato. Non è un giorno come un altro. È giorno di mercato. Le donne, giovani e anziane, affollano il bus sempre più, urlando a squarciagola: “Moussakà!”, “Fao!”, “Tellio!”.
Di solito sono le parole che sento più spesso. Ruotano tutte attorno al cibo. I piatti sono intrisi di olio, sciroppi zuccherini, aceto. Si mangia alle due del pomeriggio, se si vuole fare presto. Si mangia alle tre per normalità. Si rimane a tavola un’ora, due. Vietato alzarsi. Vietato rifiutare qualunque piatto ti venga propinato. Pena la rabbia silenziosa, degli occhi verde acquamarina delle massaie greche.

Il mercato, ricorda a detta di molti i bazaar in Turchia. A me non li ricorda molto. Sembra solo una versione più povera e priva di giacche borchiate della “montagnola” di Bologna. I banchetti delle giacche sono sostituiti da infinite casse di pesche, bamies (delle specie di zucchine), biscotti, bastoncini di sesamo e chi più ne ha più ne metta. Il tutto, a prezzi stracciati.

Il greco, oggigiorno, ha due scelte per fare la spesa low budget: Lidl o mercato. Mentre dribblo gli tsigani (i rom) e le trecce d’aglio che spuntano un po’ ovunque, penso al fatto che tra questi banchi, non servono alcolici. Gli alcolici sono nei supermercati come il Carrefour ed hanno prezzi, per noi italiani, esorbitanti.
La tassazione sugli alcolici, che ne ha fatto lievitare i prezzi, ha reso di lusso avere il piano bar a casa. Come anche l’angolo doccia. Come anche gli alimenti serviti a tavola.
In ogni angolo della città, sorgono mini market di frutta e verdura. A prezzi più o meno concorrenziali. Il resto, è non proprio off-limits, ma abbastanza ai limiti del prezzo abbordabile.

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Anziani al bar che giocano al ‘tavli’

Esco dal mercato, carica di dolci che non avrò il fegato di mangiare e vado al porto. Il porto è un lungomare pedonabile dove sorgono bar coi tavoli all’aperto dai nomi vagamente familiari: “Vento Lounge Bar”, “Venezia”, “Da Giorgio”. Vado da Giorgio: il caffè greco al tavolo, da lui, costa “solo” due euro. Sono circondata da anziani, come sempre. Mi guardano tutti, come sempre. Giocano a tavli, da bravi.
Io li imito, rimango un’ora ferma al bar, a sorbire caffè e fumare sigarette. I miei polmoni, però implorano pietà: il tabacco greco, dagli aromi che hanno risvegliato la mia più cupa dipendenza, interrompe questa sessione di araliki greco.

Sulle colline attorno a Drahma, vicino al teatro di Filippi, si coltivava tabacco: la grande ricchezza della regione fino agli anni sessanta. Durante il boom edilizio, vennero abbandonate le fabbriche che sorgevano in città. Nascevano farmacie e studi di dottori. Le piccole case neoclassiche venivano abbattute per costruire condomini in cemento armato. Un boom durato una decina di anni, fino a quando gli ingegneri non trovarono più le famiglie disposte a vendere un pezzo di terra in cambio di appartamenti lussuosi. Passando per il centro città, rimangono i cadaveri di questi edifici, chiusi con delle assi di legno marcite oppure convertiti in centri per lo shopping.

Le case indipendenti e gli appartamenti greci, sono costruiti con materiali spesso, preziosi; la moglie di un diplomatico britannico, ha la casa nella zona residenziale, la più bella della regione. Qui, tutte le case sono foderate in marmo di Carrara, in colonne doriche, in minimalismo chic. Così chic, che quelle case furono costruite poiché in una zona all’epoca di scarso valore. L’investimento ha portato i suoi frutti negli anni Novanta: erano diventate le case dei ricchi, poiché vicine ad una spiaggia incontaminata, che ne aveva fatto schizzare il valore alle stelle. Ora nessuno le può più mantenere. Sono vendute ai russi, ai tedeschi. Con scarsa sopportazione, e un filo di odio. La moglie del diplomatico ha una borsa di Michael Kors. E’ un lusso, per molti qui. Nessuna donna gira in Louis Vuitton, nessuna Audi ultimo modello sfreccia per le strade.

C’è un contenimento spasmodico su tutto. Una donna, al cui marito, guardia di finanza, sono stati decurtati cinquecento euro di stipendio al mese, continua a ripetermi che: “Noi vogliamo essere come voi europei, abbiamo il complesso dell’Europa. Per noi è bella e di lusso la camicia di Zara, ostentiamo le possibilità che ci dà la vita, perché, cos’altro abbiamo?”.
Non è la prima persona che mi parla di “complesso dell’Europa”. In ogni istituto, sono appesi i corsi e le graduatorie dell’attestato “Proficency” di Inglese. La corsa all’imparare le lingue, segna la carriera di ogni cittadino. Un ragazzo delle superiori di Atene, parlerebbe meglio l’inglese di un universitario italiano.

A parte gli anziani, tutti parlano l’inglese fluentemente. Molti, visitano Roma. Tanti, detestano Atene. Ne criticano la sporcizia, la corruzione, l’immigrazione.
Ma guai, per le critiche dello straniero: scattano tutti in piedi, gli occhi lampeggiano. Solo il greco, può detestare e criticare il proprio Paese. Solo lui lo può mettere a processo, decretarne le crudeltà e condannarlo. Come il ferrarese con la sua città.

Mi alzo dal tavolo quando arriva lo scontrino. Viene portato sempre al tavolo. La legge vuole che gli esercizi commerciali emettano sempre le ricevute. Se il cliente non riceve “il conto”, può non pagare ed andarsene.
Gli anziani lanciano le pedine al tavli e mi fissano senza imbarazzo: tanto loro, si schioderanno di lì solo per pranzo.

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la taverna ‘Araliki’

Araliki è un termine rude usato per indicare il rilassarsi. C’è anche un locale, nella città vecchia, che si chiama così. È una taverna, sulla cui tettoia vi è, evidentemente, un posto riservato a pochi eletti.
Sono proprio qua davanti a riprendere fiato. Nascosta sotto l’ombra del portone dell’Imaret. Qui, nella città vecchia, dove tutto torna ad essere una salita, lo spettacolo è irreale. E’ mezzogiorno, ci sono 33° e il silenzio regna sovrano. Non viene interrotto neppure dai tedeschi in vacanza. Anche loro passeggiano con la bocca sigillata.

Le case turco-egiziane, sono dipinte in colori brillanti, ma molte sono abbandonate. Rimangono così dei muri scrostati, con piani sorretti da tremolanti pali in legno. Sotto l’architrave di alcuni ingressi, si possono trovare delle croci nere, bruciate sulla calce bianca: con un brivido, ricordo che sono state apposte per scacciare il diavolo.

L’Imaret, invece, non posso dire se è bello o brutto. Lo hanno trasformato in hotel dei privati egiziani, dopo un lungo contenzioso. Ora, lo possono vedere solo i ricchi clienti, lasciando cinquecento euro a notte. E’ una struttura egiziana, color pesca, con tante cupole. Una volta in ogni cupola, vi era una stanza. In ciascuna di essa abitava una famiglia greco-ortodossa: i rifugiati dalla Turchia, con i loro grembiuloni neri. Ora, in ogni cupola, vi è una camera singola e letti candidi come la neve. Dove una volta sorgevano minareti, ora rimane il vuoto, la scogliera, il mare al di sotto.

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scogliera

Più in alto, rimangono una chiesa ortodossa ed una lunga discesa che parte da un campo scuola spelacchiato. Gli anziani scendono due, trecento gradini, con cappellino e telo sotto braccio. Poi vanno a nuotare, a pescare polpi.
Le chiese ortodosse sono sempre piene di fedeli. La spiritualità è per molti dono innato, tempra l’animo. Ai sacrari, per esempio, c’è chi piange, chi appoggia la testa alla vetrina, chi rimane immobile e con lo sguardo vuoto.

Io penso allo sguardo vuoto del bambino che ha cercato di vendermi le rose a piazza Aristoutelous a Salonicco. Mia zia non ha voluto dargli dei soldi, e lui se ne è andato ondeggiando, con le mani sui fianchi. Era un bambino greco.
Ed io, ora, sono sulla corriera che mi porta a casa, anzi no, sono già a casa, ma vedo ancora il cartello stradale nostalgico con la scritta: “Kostantinopolis – 680 km”. Lo vedevo dal finestrino del pullman, ricordavo il patriarca ortodosso che predicava come Istanbul fosse dei Greci di diritto e mi si ferma il respiro perché, a volte, non è vero che il tempo non passa mai.

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