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Da: Marcella Mascellani
Il 6 Aprile c.a. si è svolto a Ferrara in Via L.Borsari,46 un Convegno dal titolo “Il ruolo delle Club House” quali luoghi di accoglienza, per libera scelta, di persone che soffrono di un disagio psichiatrico.
Il Convegno è stato aperto dalla dott.ssa Paola Carozza (Direttore del Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche) che ha introdotto lo spirito dell’evento in maniera chiara, efficace e, perché no, emozionante, mettendo in luce i successi della medicina psichiatrica dalla chiusura dei manicomi in poi, dove il significato di medicina non racchiude solo il concetto di cura (e soprattutto non solo farmacologica), ma anche di riabilitazione finalizzata alla prevenzione delle ricadute.
Straordinari e toccanti gli interventi degli utenti sofferenti, o che hanno sofferto in passato, di un disturbo psichico testimoni a gran voce del fatto che finalmente si sentono liberi di poter scegliere il loro percorso di cura e riabilitazione.
Non si parla più solo di “controllo” e “contenimento” della malattia psichiatrica, ma di riabilitazione come possibilità di lasciarsi la “malattia” alle spalle e con un occhio verso il futuro con l’obiettivo di diventare portatori di benessere mentale aiutando, allo stesso tempo, gli altri che soffrono dello stesso disturbo.
Lo stigma che accompagna la malattia mentale non è stato superato. Forse questo non accadrà mai. Sicuramente il fatto di poterne parlare liberamente ad un Convegno aperto alla cittadinanza e non limitarlo a quattro mura di uno sterile ambulatorio è una gran vittoria.
Di molti di loro ho avuto il dubbio, fino a quando non lo hanno dichiarato, che fossero operatori del settore senza aver necessariamente vissuto la malattia.
Poco importa; in quella veste la loro era la testimonianza in positivo di chi opera al servizio della “Club House” di Ferrara e, soprattutto con gran soddisfazione, accanto al dottor Wladimir Fezza (Presidente di Scacco Matto srl – Ferrara).
Denominatore comune di tutti gli interventi, era il fatto che ritenevano di aver trovato nella Club House “una famiglia”, “una casa”, quando il concetto di “famiglia” e di “casa” sostituisce il concetto di “luogo” nel quale si è accettati e si convive con le persone che nutrono per te un sentimento e dove puoi trovare conforto.
Pur non entrando nello specifico della malattia psichiatrica, in quanto non sono un “addetto ai lavori” come si usa definire nel gergo comune chi conosce esattamente contesti e contenuti di una questione, sono stati due gli interventi che mi hanno acceso una riflessione sul disagio psichico.
Il primo, emerso con l’intervento del Dr. Ralph Aquila che ha illustrato l’esperienza del Fountain House di New York al quale poi si sono ispirate molte esperienze successive nel settore, che ha sottolineato un profondo legame tra l’esistenza di relazioni umane e il benessere individuale e sociale. Ha parlato di determinanti sociali che influenzano, nel bene o nel male, la nostra vita.
Il Dr. Aquila ha richiamato la nostra attenzione sull’essere consapevoli che la maggior parte degli agenti che agiscono sulla felicità, o sulla infelicità, sono sociali più che intrapsichici. Sono compresi quindi la famiglia, la scuola, l’ambiente di lavoro, la condizione economica, lo stato di salute fisica, etc…
L’altro intervento è stato quello di un ragazzo di 30 anni che ha anticipato il suo racconto dichiarando che mai avrebbe immaginato, durante il corso della propria vita, di essere etichettato come malato psichiatrico, visto che il suo stato di malattia conclamata aveva avuto inizio proprio in concomitanza con l’affacciarsi della sua vita al ruolo di adulto. La sua testimonianza mi ha fatto capire che il confine tra stato di salute e malattia psichiatrica è labile proprio come la linea sottile che ci divide dallo stato di salute a quello di malattia fisica.
La nascita di realtà che “accolgono” persone con disagio psichico le quali arrivano ad avere una propria autonomia sociale e lavorativa (il lavoro aiuta a dare significato alla vita) e a loro volta diventano supporto per altre persone che chiedono aiuto, mi ha fatto pensare che nella nostra società molto poco si fa per prevenire il disagio psicologico, anzi, tutto avviene per provocare esattamente il contrario.
Dovremmo cominciare da noi ad essere portatori di benessere, impegnandoci nelle cose di tutti i giorni, iniziando dal nostro rapporto con i bambini adottando comportamenti e atteggiamenti semplici che diventano importanti per loro.
Come disse anni fa il dott. Alberto Urro (educatore e coordinatore attività Ausl e Promeco) durante uno dei suoi interventi nelle serate di spazio condiviso tra genitori ed educatori: “All’uscita di scuola, quando vi trovate davanti i vostri figli, prima di chiedere loro come è andata la verifica di matematica, informatevi su com’è andata la loro giornata”.
Come insegnanti valorizziamo le vittorie dei bambini, dei ragazzi, non limitiamoci alla correzione dei loro errori o a sottolineare le loro sconfitte.
Stessa cosa nello sport: non cerchiamo nei ragazzi solo il talento, ogni loro sorriso o risata deve essere una vittoria per chi li allena.
Scriveva la Dott.ssa Antonietta Bernardoni (n. 1919 – m. 2008): “L’acquisizione di capacità personali condotta avanti in maniera sempre individualistica, quasi sempre competitiva, cosi come si fa abitualmente nella nostra scuola – a partire dalla scuola materna fino all’università – non costituisce un arricchimento reale della personalità ma costituisce una falsa realizzazione di sé che sostituisce e impedisce quello sviluppo della personalità del singolo che per essere veramente reale deve collegarsi allo sviluppo dell’umanità nel suo complesso”.
Viviamo in una società dove il rapporto umano sembra spaventare, nella quale si sostituiscono le persone deputate all’accoglienza con un totem asettico, elettronico, dove prima che ad una linea telefonica tu possa parlare con un operatore devi essere ben sicuro di aver necessità di interfacciarti con un essere umano o vieni rimandato a sostituirlo con i tasti 1 – 2 – 3 o 4.
Siamo circondati dall’oggettività di procedure, protocolli, valutazioni e misurazioni.
E rifiutiamo ciò che è umano, troppo umano.
Cominciamo a tappeto a lavorare sulla prevenzione del disturbo psicologico o psichiatrico promuovendo il benessere dalle piccole azioni e perché no, anche nei luoghi di lavoro.
Se la prevenzione ha salvato tante vite dalla malattia fisica o dalla morte, chiediamo la stessa cosa per la mente.
Il Congresso si è concluso con un applauso scrosciante, sincero.
Abbiamo applaudito alla sconfitta di un fantasma del passato fatto di camici e cinte di contenzione, di elettroshock, di vasche con ghiaccio, di cure del sonno, di ipoglicemie provocate. Abbiamo applaudito ad un percorso ancora lungo verso il rispetto del malato psichiatrico, ma riconoscere, oggi, dignità alla malattia mentale alla pari di qualsiasi altra malattia fisica vuol dire aver già scelto il cammino giusto.

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Riceviamo e pubblichiamo


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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