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Respiro ancora i balsami che emanano dagli ultimi fiori che al mercato sotto la statua di Savonarola i commercianti veneti portarono prima della chiusura totale. Delicati odori di fresie bianche e di gigli rosa con la nota acuta dei giacinti blu che oggi hanno esalato l’ultimo respiro. Al computer ascolto il disco con tutto Verdi diretto da Riccardo Muti e mentre qui in città si viola ogni convivenza civile tra piatti che volano, silenzi e urla, richieste di dimissioni, risposte di “ma quello/a chi è ?”, ripenso al termine eleganza che fino a poco tempo fa era, al di là di chi governava la città, una cifra stilistica, etica, storica della vita di Ferrara. Di una cara amica, importante rappresentante delle amministrazioni passate, rudemente attaccata da un noto critico e polemista, mi viene alla memoria la classe e la gentilezza.

Lei, erede della famiglia Tambroni la cui moglie giacque, immortale Grazia – quella di mezzo – tra le braccia di Antonio Canova che la scolpiva. La famiglia si limitò all’uscita della stampa del Gruppo a strapazzarne l’immagine, amorevolmente conservata poi, dalla stessa famiglia. Non dimentichiamoci che il padre della suddetta signora fu tra i più straordinari cultori della memoria e della forza culturale della città e a lui, Luciano Chiappini, la città intera deve – come nell’immediato ultimo Dopoguerra a Carlo Bassi, a Giorgio Franceschini , a Claudio Varese –  la memoria gentile, la qualità della cultura ferrarese. A questo non ci si può sottrarre se non negando quel poco o tanto che Ferrara ha saputo esprimere nel Secolo Breve e, in conseguenza, nell’oggi così poco gentile e pacato.

Mentre si svolge questo tempo oscuro dell’oggi, mi sovviene non l’eterno ma la declinazione della bellezza tra giardini e paesaggio, Dante, i poeti ferraresi e anche talvolta la rischiosa avventura sul terreno mobile della storia dell’arte di cui sono adepto e incurabilmente seguace.
Così, dopo il soggiorno ai Tatti o alle università americane a Firenze, Oxford, Harvard, San Francisco. Seattle, Smith College le Seven Sisters sino alla Julliard School, dove tenni la lectio magistralis per la laurea dell’amico Muti tornavo a Ferrara. Potevo dire tra me e me: “Sono qualcuno”, ma prevaleva la vita, l’eleganza dell’essere e del fare; poi, anche se le amministrazioni ferraresi mi davano lo sfratto dalle associazioni e luoghi che avevo fondato, a chi importava? Non certo a me che passavo nel giro di una settimana dall’abitare in una delle case più belle del mondo a Firenze, ritornando poi felice nei miei 80 metri quadrati in affitto, a fare i conti della spesa e, se me lo potevo permettermi, il cinema. Conclusione. Vale la pena sbraitare? Vale la pena di accapigliarsi se non pensando alla qualità della vita che puoi condurre con eleganza e civiltà? Molto spesso è quel che manca nelle dispute ‘fraresi’ odierne. L’urlo e la canea non dovrebbero risuonare nella la città del silenzio.

Esco pertanto nei dieci minuti concessi alle mie compere giornaliere nel breve tragitto tra casa mia, gli alimentari e la farmacia, bardato secondo le esigenze dettate dal maledetto morbo: palandrana scura, cappello avvolgente, occhiali e sciarpona che mi copre bocca e naso. A 20 metri, mia moglie cammina svelta, avvolta nella stessa mise ma con sciarpa bianca. Qualche breve notazione rompe il silenzio irreale. Arriviamo agli alimentari e scopriamo una discreta folla che s’aggira prudente, coperta da una, due, a volte tre mascherine. Ci si guarda un po’ in cagnesco, mentre i più sembrano inghiottire il cellulare per non sgarrare dalle inflessibili leggi. Dopo paziente attesa, dall’interno esce l’inappellabile grido scandito col nome di battesimo che uguaglia tutti, e quindi, con fare sottomesso e umile, raccogliamo la spesa. In breve raggiungiamo le fruttivendole. Compongo un inno con accenno di balletto alla loro insuperabile uva e quindi mi metto in fila lunghissima di fronte alla farmacia. Non più grida ma sussurri, mentre smarriti teniamo il doppio della distanza. Commentiamo seccamente l’atteggiamento inopportuno di chi non la tiene, mentre ectoplasmi che non rivelano il gender, guardano sospettosi i chiamati all’Eliso farmaceutico. Infine torniamo sempre a distanza dondolando borse e borsette per infilarci alla fine nel portone di casa che rivela, al di là dei vetri del giardino, la più bella fioritura di camelie che ricordi da decenni. Rispettosamente mi allontano per lasciar vivere il loro trionfo, breve ma indice di una bellezza indistruttibile.

Ed ecco, mentre svogliatamente mi aggiogo al carro del lavoro – due saggi uno su Magris, l’altro sulle Delizie ferraresi– scopro che alla sera verrà proiettato Il grande Caruso con Mario Lanza. Finalmente! Dopo anni ho la forza di rivedere quell’orrendo film che mi ha fatto sognare. Ecco allora risuonare la voce mediocre, ecco i vestiti strepitosi, ecco quel lusso pacchiano delle migliori produzioni hollywoodiane, ecco apparire Gatti che con un sussulto ricollego al sovrintendente Gatti Casazza che fece la fortuna di Caruso e del Metropolitan e che, ‘naturalmente’, era ferrarese. Un teatro mediocre e che, appunto,per la sua mediocrità mi affascinò nel 1982 quando lo frequentai.
E per finire,tra gli innumerevoli auguri ricevuti nel giorno del genetliaco, ecco il regalo più gradito tra gentilezza e nobiltà. Una delle mie pronipotine compie gli anni in questi giorni, il padre Francesco arriva a casa e viene abbracciato dalla figlioletta che gli si attacca al collo e comincia a urlare “Auguri!  Auguri!”. Le si viene fatto notare che domani sarà il suo compleanno. Risponde, la piccola Martina, che è sbagliato, poiché in quel giorno si celebrava la festa di San Francesco Rom. Da gran filologa, aveva fatto il maschile di Santa Francesca Romana e quindi progettiamo di fornire al padre un mantello/lenzuolo, cappello e piattino d’ottone per raccogliere soldi per i poveri. E da ora, Franz si chiama Francesco Rom.

La cupezza di questa città sembra irreversibile: non più indugiare in mirabili piazze, non più vivere in socialità. Solo reclamare nel silenzio irreale degli IO che attestino un valore. Quale valore? Certo, ci sarà, ma privo di eleganza, di discrezione.
Ma è questo che vogliono e pretendono gli ‘itagliani’. Quasi tutti.
Comunque da elogiare il comportamento dei miei concittadini, dei miei connazionali che hanno saputo e sanno aderire con matura civiltà alle dure leggi imposte per il bene di tutti.

 

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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