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Fratelli tutti è la terza enciclica di papa Francesco, dopo Lumen fidei del 29 giugno 2013 (iniziata da Benedetto XVI e firmata da Bergoglio) e Laudato sì (24 maggio 2015).
La firma è del 4 ottobre sulla tomba di San Francesco ad Assisi, festa del santo patrono d’Italia: un papa gesuita sempre più francescano.
Del resto, come il poverello di Assisi ha dato il nome al suo pontificato e lo ha ispirato a scrivere Laudato sì (l’enciclica per la terra), il “Santo dell’amore fraterno” (2) è alla base di Fratelli tutti.
Ispirazione questa volta condivisa con “altri fratelli che non sono cattolici” (286), come Martin Luther King, Desmond Tutu e il Mahatma Gandhi, oltre al beato Charles de Foucauld.

Il lungo documento non è un trattato sulla fraternità universale, cifra stilistica ormai di un magistero, con tutti i pro e i contro, che si caratterizza più per un linguaggio spirituale e psicologico che per una teologia sistematica.
Ma anche Fratelli tutti va letto non tanto e solo per quello che dice, ma come lo dice; vale a dire quell’incedere pastorale e non dottrinale che risale allo stile di papa Roncalli e del concilio Vaticano II, ma che non prende congedo da un’uguale profondità teologica. Vero e proprio principio organizzativo di una postura della Chiesa che vuole essere Mater prima ancora che Magistra.

Per quel poco di sintesi che si può fare di otto capitoli sviluppati in 287 paragrafi, si può cominciare con quello che non c’è nell’enciclica.
Non sbaglia Roberta Trucco su Ferraraitalia [Vedi qui] a rilevare la mancanza del termine sorelle accanto ai fratelli.
La pensa così anche il moralista Simone Morandini (Il Regno): “forse una maggiore attenzione per la dimensione complementare della sororità avrebbe arricchito un testo sul versante delle relazioni di genere”. Specie se si pensa che per Assisi è difficile pensare a Francesco senza Chiara.

Nell’enciclica non c’è, poi, un accenno sul tema rovente degli abusi sessuali e neppure c’è un solo riferimento alle opacità e intrighi dentro le mura vaticane.
La recente vicenda clamorosa dell’acquisto della Santa Sede di un immobile in Sloan Avenue a Londra, pagato 200 milioni di euro (ben oltre, si dice, il suo valore effettivo), è il coperchio sollevato di una pentola dentro cui da tempo ribollono scontri tra cardinali, monsignori, manager, affari, giri di denaro, comprese le offerte dei fedeli (l’obolo di San Pietro), su cui ora sono al lavoro avvocati e giudici.
Tutti aspetti che è difficile pensare estranei alla fraternità, innanzitutto dentro la Chiesa.
Si può dire che il quasi 84enne Bergoglio non abbia la forza per porre il dito, per quanto papale, su alcuni fronti, la cui temperatura è così alta da far pensare ai cavi dell’alta tensione.

Se le forze sono mancate tanto a papa Ratzinger quanto adesso a Bergoglio, si fatica a trattenere il dubbio inquietante se, pensando agli intrighi vaticani, la curia romana non sia riformabile né da destra, né da sinistra.

Proprio per il peso epocale di questi banchi di prova, assumono particolare peso le parole di commento all’enciclica di Mons. Victor Fernández, argentino, vescovo di La Plata, dato per molto vicino a Bergoglio: “Direi che è il grande testamento sociale di papa Francesco”.

Fin dal primo capitolo (Le ombre di un mondo chiuso) il pontefice dà voce a preoccupazioni al limite di un proprio pessimismo. Quasi solcando una distanza, come scrive Massimo Faggioli su Commonveal, rispetto alla ventata di fiducia del documento conciliare Gaudium et spes (1965) e in una una certa, e per certi versi sorprendente, continuità con il pessimismo di Benedetto XVI sulla modernità.
Fino ad arrivare a dire che in un mondo “senza una rotta comune (…), fra il singolo e la comunità umana sia ormai in corso un vero e proprio scisma” (31). Termine che come nessun altro nel linguaggio ecclesiale significa rottura.

Lo sguardo preoccupato è rivolto a un processo di globalizzazione che causa distanze, paure, chiusure. Liberismo, paradigma tecnocratico della finanza e della rete, populismi e nazionalismi, portano alla chiusura egolatrica dell’ ”io” a scapito del “noi” e producono la cultura dello scarto (188).
Parole che sentono prepotentemente l’eco degli effetti della pandemia: “non ci dimentichiamo degli anziani morti per mancanza di respiratori, in parte come effetto di sistemi sanitari smantellati anno dopo anno” (35).

La parabola del buon samaritano (Lc 10, 25-37), porta la riflessione nel solco biblico, per dire che lo spazio della fratellanza nel rispetto della dignità umana va cercato oltre ogni steccato e confine. L’assistenza e la compassione al malcapitato del racconto evangelico vittima dei briganti, non viene dal sacerdote, né dal levita, le persone perbene e timorate di Dio che passano oltre, ma dal samaritano, cioè da quanto di più spregevole, impuro, detestabile e pericoloso, si potesse immaginare secondo l’ortodossia del tempo.

Parallelamente, oltre ogni confine papa, Francesco guarda gli immigrati – da accogliere, proteggere, promuovere, integrare (129) – e oltre ogni confine ecclesiale estende lo spazio di costruzione della fraternità, quando cita per cinque volte Ahmad al-Tayyeb, grand imam di al-Azhar (la moschea-università del mondo islamico al Cairo), con il quale firmò il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi.

Sull’onda di quella che è stata chiamata un’antropologia relazionale, Fratelli tutti si spinge fino a schierarsi senza mezzi termini contro la pena di morte e la guerra, prendendo definitivamente congedo in terreno ecclesiale anche dal concetto di “guerra giusta”. Così come annovera la fame tra i crimini compiuti contro l’umanità.
Tutti temi che sono munizioni nelle mani di quanti criticano da tempo papa Francesco, perché il suo magistero osa toccare con sconcertante disinvoltura il sancta sanctorum dell’ordine mondiale economico e finanziario, con le sue leggi e regole del mercato, della produzione, della ricchezza.

Argomenti che rafforzano anche gli avversari interni a Bergoglio, reo di una navigazione verso la diversità che sacrifica i principi di verità sull’altare di un’indistinta carità, finendo per allentare il senso di un’appartenenza identitaria. Un cammino che irretisce storiche alleanze politiche, ritenute anche tatticamente utili per la difesa dei principi non negoziabili.
Ma, come scrive Marcello Neri su Il Mulino on line, la risposta di papa Francesco è chiara: “ci sono urgenze più impellenti che devono impegnare la coscienza cristiana in questo momento”.

Quello di Fratelli tutti, in altri termini, ha tutta l’aria di essere l’appello di chi sente con senso profetico che l’umanità si sta avvicinando al punto di non ritorno.
Papa Francesco sembra drammaticamente consapevole di un precipizio che, se non si cambia rotta – per il creato e per l’uomo – si avvicina pericolosamente e decide di entrare nei panni della sentinella che, come nella Bibbia, sa di non essere amata perché non cerca consensi. E tenta di delineare, pur con tutti i limiti di un discorso non sistematico, un’architettura del mondo, delle relazioni umane e della pace, che ha bisogno anche di un artigianato della fratellanza, fatto dei gesti e della testimonianza di tutti.

Cover: Udienza pubblica settimanale, Papa Francesco, Piazza San Pietro, Città del Vaticano. Foto di Mario Roberto Duràn Ortiz (Wiki Commons)

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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