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Avevamo lasciato Valentina Brunet e la sua bicicletta denominata ‘Rosa’, nonostante il suo colore fosse tutt’altro, al valico del confine tra l’Uzbekistan e il Turkmenistan.

Che Paese è il Turkmenistan?

E’ un Paese [Qui] che non ha ancora completamente aperto le porte ai visitatori e turisti, ma rilascia costosi visti di transito di 5 giorni, secondo parametri ancora sconosciuti! L’ho notato fin da subito al confine, in quegli uffici di un grigiore assoluto, dove comunicavo attraverso finestrelle dalle quali gli impiegati non davano risposte né spiegazioni. La maggior parte degli hotels, che portano tutti il nome della città di appartenenza, non sono autorizzati ad ospitare stranieri e il Turkmenistan è il settimo tra i Paesi al mondo meno visitati. E’ ricchissimo di gas che viene distribuito gratuitamente a tutti i cittadini e continuerà ad esserlo almeno fino al 2030. Ho visto imponenti edifici governativi, che contrastano con le umili abitazioni della gente e ovunque enormi gigantografie del Presidente. Nelle città che ho attraversato c’era una pulizia totale, grandi piazze vuote e immacolate, telecamere di controllo, mi sentivo sempre osservata. Come nelle altre ex repubbliche sovietiche, ogni auto può fare servizio taxi a pagamento. Il Presidente ha voluto accentrare tutti i servizi sanitari e ospedalieri a Ashgabat, licenziando tutto il personale medico delle altre città e chiudendo gli ospedali. E poi ancora, il divieto di possedere animali domestici e di spettacoli come opera, balletto e circo. Internet funziona malissimo e molti siti sono stati bloccati.

Quali sono i momenti particolarmente piacevoli che hai trascorso là?

Ospite in una famiglia, Kamila e Maya mi hanno fatto provare i loro vestiti tradizionali, che sono bellissimi, delle autentiche opere d’arte di tessitura e colori. Mi hanno acconciato i capelli e mi hanno fatto un vero e proprio servizio fotografico. Mi è toccato come regalo l’abito viola che conservo ancora gelosamente. La nonna, una guaritrice, mi ha offerto un massaggio con oli speciali, che hanno bloccato il mio raffreddore incipiente. Mi hanno anche letto il destino nei fondi di caffè.

Come si conclude il tuo breve passaggio in Turkmenistan?

Avrei voluto fermarmi un po’ di più in questo strano Paese ma ero condizionata dalle date previste nel visto per l’Iran. Sono ripartita tenendo a portata di mano una sciarpina che fungesse da hijab, il copricapo femminile, come previsto in Iran anche per le turiste. Al posto di blocco per il confine, tutti i viaggiatori sono stati costretti a salire su un autobus, io e la mia Rosa comprese, e al confine ho lasciato senza intoppi quel Paese del tutto particolare.

E quindi l’Iran.

Qua ho trovato il primo impiegato doganale che parlasse un inglese fluente. Ero in Iran [Qui] ed era sparita la segnaletica in cirillico, sostituita dalla scrittura in farsi. Stavo affrontando un radicale cambiamento di cultura e ambiente, avevo oltrepassato la linea immaginaria di demarcazione tra un mondo e l’altro. Edoardo, la mia guida in questo Paese aveva avuto un incidente e quindi mi sarei dovuta arrangiare da sola, donna straniera in un luogo dove l’emancipazione femminile era un miraggio. Per fortuna ho conosciuto a Mashad un cicloviaggiatore iraniano, Saeed, che mi ha affiancata in questo nuovo tratto di viaggio garantendomi protezione.

Come è stato il contatto con la gente?

Ho trovato molta generosità da parte di molte persone e ho potuto avvicinarmi alla loro quotidianità, le loro abitudini e attività in un confronto fatto di entusiasmo, osservando come in questo Paese le sanzioni stabilite dagli Stati Uniti e il nuovo regime islamico abbiano prodotto un crollo economico evidente. Ho notato anche come le nuove generazioni vivano la dicotomia tradizione-modernità con sofferenza e senso critico. C’è stato chi mi ha invitato a un matrimonio addobbandomi a festa in abito rosso improponibile, chi mi ha accolta in famiglia, chi ha aperto la porta del suo piccolo mondo con semplicità e disponibilità. Mi hanno rifocillata con ogni sorta di cibo, ospitata per un bagno e regalato sciarpe per il viaggio. Ho trovato però anche qualche maschio che mi ha insultata pesantemente, affiancandomi con l’auto. Io e Saeed abbiamo bivaccato con dei pastori, condividendo il fuoco e il cibo, e abbiamo assistito alla nascita di un agnello.

Come procede il viaggio in terra iraniana?

Le strade erano molto trafficate da mezzi pesanti, gli incidenti erano frequenti e il paesaggio era a volte delizioso, colline e campi di zafferano, altre desertico. Molti i controlli della polizia nei territori del narcotraffico dal Pakistan e dall’Afghanistan, che interrogavano insistentemente Saeed; ci hanno perfino offerto una scorta per accompagnarci. Abbiamo dormito anche in due angoli opposti di qualche moschea, svegliati dalla voce tonante del muezzin. Ho avuto qualche problema con il ginocchio e altri disturbi, che hanno reso tratti del mio viaggio dolorosi. Ho visitato le rovine di un antico villaggio distrutto dal terremoto e a Nayband le stradine erano così strette che abbiamo dovuto lasciare le bici a un venditore di sciroppo di datteri e addentrarci a piedi. Ho sentito ululare gli sciacalli di notte e ho alloggiato in un caravanserraglio che sembrava un castello nel deserto. Nei rari momenti in cui mi sono concessa un giro da sola nelle zone di qualche città, ho constatato da vicino il disprezzo dei maschi nei confronti di una donna sola, la volgarità e la sfacciataggine. Ho provato insofferenza profonda, esasperazione, Rabbia.

Cosa ti ha colpito particolarmente di questo Paese?

La città di Yzad, un’intera città costruita con la terra curda, una meraviglia, patrimonio UNESCO, che si espande tra viuzze pulite e labirinti. Viene chiamata “città della bicicletta” e si crede che la cultura della bici diffusa in tutto l’Iran sia nata proprio qua, eredità dei cicloviaggiatori stranieri. Mi ha colpito la città di Shiraz e il paesino di Ghalat, un pittoresco agglomerato antico tra le montagne, alberi e cascate. Qua ho conosciuto un artista eclettico, Ramin, e nella sua casa si respirava aria di libertà amicizia, musica, e una connessione potente nei momenti di meditazione. Ricordo poi che quando siamo arrivati a Qeshm Island era la vigilia di Natale: era da Hong Kong che non vedevo il mare. Me lo sono gustato tutto su quelle spiagge, dove tutti rimangono vestiti e coperti anche nell’entrare in acqua, dove le donne lasciano liberi solo gli occhi attraverso due fori dei loro abiti colorati. Eravamo ospiti in un appartamento lussuoso, il cui proprietario ostentava la sua ricchezza e ci ha offerto di tutto e di più, compresa una mega festa con drink e musica a palla.

Come finisce l’avventura  Iran?

Finisce su un traghetto per Dubai, Emirati Arabi. Una vispa signora che vestiva in blu, a differenza di tutte le altre in nero, dichiarava di volermi seguire su Instagram per imparare l’inglese, mentre il capitano mi intervistava e mi riprendeva con telecamera. Salvo poi invitarmi nella sua cabina di comando e tentare di allungare le mani. L’Iran sfuma con quest’immagine di Paese contraddittorio, tra ospitalità e accoglienza ma anche momenti come questo. Un Paese che, alla fine, si è fatto voler bene e mi ha voluto bene.

Segui tutti i lunedì su Ferraraitalia le interviste a Valentina Brunet, rilasciate durante l’intero percorso.
Leggi tutte le puntate precedenti nella rubrica Suole di vento

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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