Skip to main content

di Tommaso La Rocca

Ancora una storia di un deportato e di un sopravvissuto ai lager nazisti. Ma quella raccontata nel libro di Andrea Carli Il caso Arpur, appena ripubblicato (gennaio 2014) in coincidenza del cinquantesimo anniversario della sua prima edizione, è significativamente diversa. Non si tratta di un deportato ebreo nei campi di concentramento tedeschi, destinato alle camere a gas e ai forni crematori. Michele Arpur, il protagonista, è invece un soldato italiano, fatto prigioniero di guerra all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943, internato nello speciale lager di Hohenstein, dove fu sottoposto a un raffinato sadico esperimento di sfigurazione fisica e psichica inedito o per lo meno poco conosciuto, se non addirittura assente nella letteratura postbellica.
Sotto l’autoritratto a colori del pittore Andrea Carli, riprodotto nella copertina del suo libro, si intravvede il ritratto in bianco e nero del viso sfigurato del protagonista della storia raccontata nelle sue pagine. Tutto fa ritenere che l’autore dell’immagine e del libro, Andrea Carli, e il protagonista della storia narrata, Michele Arpur, siano la medesima persona. Ciò che Andrea scrive di Michele non può non averlo vissuto lui stesso. E ciò che Michele vive e soffre può raccontarlo e scriverlo solo uno che ha vissuto e sofferto le medesime brutali sevizie.
Tuttavia l’autore non ci aiuta mai sino alla fine a segnare con esattezza i confini della realtà storica da quella del racconto romanzato. E noi non riusciamo a comprendere quanto sia finzione letteraria e cosa resta della nuda verità storica vissuta. Io mi sono lasciato trasportare da una lettura e da una interpretazione libere. Come lettore e recensore del libro, nella mia interpretazione, forse mi sono spinto oltre la realtà ed ho “trasfigurato” oltre il limite l’immagine del protagonista del libro. Per riportarla alla sua reale dimensione, ritengo giusto riportare qui la precisazione che mi ha fornito, dopo la lettura in anteprima della mia recensione, il dottor Pierluigi Lisco, marito di Rossella Carli nipote di Andrea: “Devo precisare che lo Zio Andrea Carli è stato un internato militare nel campo di Hohenstein subendo fame, freddo, umiliazioni e riportando anche una frattura con amputazione di parte di falange della mano destra per un incidente occorso durante i lavori forzati, ma l’esperimento nazista non ha riguardato la sua persona, anche se è tornato a casa pesando 40 chili per un’altezza di un metro e 72. Non sapremo mai se quell’esperimento nazista sia esistito realmente su qualche deportato o sia solo una metafora del romanzo. Sicuramente Carli-Arpur-Anselmi metaforicamente sono la stessa persona.”

Quando inizi a leggere “Il caso Arpur” non riesci a smettere. La storia ti avvince e rapisce, la scrittura ti afferra e ti sequestra fino a quando non sei arrivato fino in fondo. Al termine, rimani senza fiato, senza parole, con una folla di emozioni e reazioni che non riesci a diluire per giorni e giorni. Vorresti che fosse solo letteratura, romanzo, invece è storia, la cui insensatezza è tale e talmente incomprensibile da farti dubitare della verità della vicenda narrata. Ti rimane una tristezza infinita e una rabbia inestinguibile. Inaccettabile e insopportabile soffrire per sevizie crudeli e per un’ingiustizia totalmente gratuite!
A Michele Arpur i nazisti sfigurarono il volto, mutandone la fisionomia, e menomarono il fisico con un inimmaginabile diabolico sadismo, rendendolo claudicante. Alterando in questo modo i tratti fisici, pensavano di riuscire a mutarne anche la personalità, producendone la irriconoscibilità e la cancellazione della memoria di se stesso a se stesso e successivamente alle persone conosciute in precedenza, ma soprattutto innestando in questo modo nella sua psiche processi che avrebbero dovuto potare alla perdita della propria identità e alla pazzia. Piano, sebbene solo in parte, tragicamente riuscito.
Al rientro dalla prigionia (1948) non fu, infatti, riconosciuto da nessuno. Per la moglie, la madre e gli amici era impossibile o per lo meno molto difficile riconoscere Andrea sotto la sua nuova maschera facciale, nella sua curva e claudicante andatura prodottagli appositamente dall’accorciamento di alcuni centimetri del femore, e nemmeno più nella sua grafia, anch’essa risultata irrimediabilmente alterata in seguito alla singolare operazione di irrigidimento dell’indice e del dito medio. Ciò che i nazisti non riuscirono a eliminare, modificare e piegare furono la sua singolare intelligenza, che traspariva dalle pagine del suo diario, e la sua irriducibile dignità personale. Il raffinato e diabolico piano di manipolazione dei nazisti non la ebbe vinta sino in fondo. Andrea, alias Michele, non si arrese neanche di fronte alla condanna alla pazzia comminatagli dai medici dell’ospedale psichiatrico di Treviso. La sua dignità non venne meno neanche davanti al rifiuto di riconoscimento dei propri cari e degli altri. Essi, salvo eccezioni, credendolo con certezza morto, lo sospettarono addirittura di gioco ingannevole e di pazzia.
La sfida più grande per Andrea era salvare la propria integrità mentale e la propria identità. Fu spesso sul limite di perdere l’una e l’altra, come quando, nella piazzetta vicino casa a Venezia, avvertì quella stranezza di non essere nessuno o quando, come al tempo della visita al cimitero di Fullen, gli parve di sentirsi pirandellianamente se stesso e un altro di se stesso.
Questa multipla e frammentaria identità di se stesso, sembra in un preciso momento definitivamente ricomporsi. Accadde quando, attraversando come al solito la piazzetta della chiesa della Salute, inaspettatamente si sentì chiamare per nome, Arpur. Egli istintivamente si voltò, e si trovò di fronte Anselmi che aveva sempre sospettato che dietro quella mutata andatura curva e claudicante e sotto quella mutata fisionomia si nascondesse il suo vecchio amico di università, Arpur. Al gesto di risposta di Andrea, Anselmi non ebbe più dubbi: “se voi non siete Michele Arpur, perché vi siete voltato?”. Fuori della finzione letteraria, quell’Anselmi è l’altro di se stesso di Andrea. Quell’incontro e quel riconoscimento non sono altro che il riconoscimento di Andrea di se stesso e l’incontro con se stesso. E’ il momento cruciale in cui Andrea si riconosce e si riprende la propria identità. L’insonne ricerca di se stesso, della propria identità, alla fine pare approdare alla verità di se stesso.

L’impegno culturale e le opere letterarie e pittoriche prodotte dopo la liberazione dalla prigionia di guerra, fino al 1990, anno della sua morte, appaiono tutti momenti e vie di ricerca di questa identità e della verità di se stesso. La produzione letteraria e artistica è la prova dell’avvenuto pieno autoriconoscimento di Andrea, del ritrovamento della propria identità e, al tempo stesso, della consapevolezza della singolarità delle propria storia e della volontà di lasciarne le tracce. Quest’ultima dovette imporglisi certamente come una sorta di imperativo etico, se si considera che Andrea come confermano le sue nipoti, Isabella e Rossella, presso la cui famiglia egli visse per trent’anni, era molto riservato e schivo a parlare di se stesso.
Si potrebbe quasi dire che attraverso la scrittura e la pittura, il volto di Michele Arpur, sfigurato fisicamente nel Lager nazista, alla fine riappare spiritualmente trasfigurato in quello di Andrea Carli scrittore, poeta, artista. La trasfigurazione non si risolve in metamorfosi, perché non riesce a modificare, cancellare o nascondere, come in una nuova operazione estetica, i segni cicatrizzati della sofferenza sul volto sfigurato di Michele. Rivela ed evidenzia invece i segni originari ineliminabili della personalità, dell’intelligenza, del talento artistico e, soprattutto, del senso della propria dignità di Andrea. L’ispirazione del poeta, la penna dello scrittore e il pennello del pittore l’hanno avuta vinta, almeno in parte, sul diabolico bisturi del sadico medico nazista. Andrea voleva forse dire proprio questo quando in un passaggio del suo racconto annota che i nazisti, nonostante tutti i tentativi di distruggerne la fisionomia e l’identità, “dentro non erano ancora riusciti a modificarlo”.

Non so quanti casi Arpur ci siano stati durante il periodo nazista. Dalle pagine del libro non si evince neanche se ci fosse un piano di sperimentazione nazista sistematicamente e rigidamente organizzato. Agli studiosi il compito di accertarlo.
Sono convinto però che quella di Andrea Carli non è e non può essere ritenuta una vicenda soltanto individuale. Il Caso Arpur, al di là della sua singolarità, potrebbe essere assunta a rappresentazione della storia delle generazioni che hanno vissuto, in vario modo, quel tempo di guerra, prigionia e crudeltà scatenate dal nazismo. Uscite provate nelle loro identità psichiche, culturali e sociali, hanno poi fatto fatica a recuperarle.
Il libro di Andrea Carli lascia spazio, poi, a sospettare anche di disegni razzisti ancora più inquietanti di quello dell’Olocausto: ristabilire la purezza della razza ariana eliminando, dopo gli ebrei, a mano a mano, anche gli altri soggetti “impuri” attraverso sistemi di alterazione e menomazione fisica e psicologica, come quello sperimentato col “caso Arpur”, in cui Andrea si è trovato tragicamente a fungere da cavia.
Le tracce che egli ha voluto lasciare nel suo libro appaiono allora anche un messaggio a non abbassare la guardia contro le rinnovate forme razziste di negazione e di manipolazione radicale degli altri. Al tempo stesso, il libro di Andrea Carli è un’ulteriore testimonianza storica indiscutibile contro tutti i tentativi di negazionismo ricorrenti dell’Olocausto e delle pratiche di crudeltà inumane del nazismo.

Andrea Carli, Il caso Arpur, Tresogni,2014

tag:

Riceviamo e pubblichiamo


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

Periscopio è  proprietà di un azionariato diffuso e partecipato, garanzia di una gestitone collettiva e democratica del quotidiano. Si finanzia, quindi vive, grazie ai liberi contributi dei suoi lettori amici e sostenitori. Accetta e ospita sponsor ed inserzionisti solo socialmente, eticamente e culturalmente meritevoli.

Nato quasi otto anni fa con il nome Ferraraitalia già con una vocazione glocal, oggi il quotidiano è diventato: Periscopio naviga già in mare aperto, rivolgendosi a un pubblico nazionale e non solo. Non ci dimentichiamo però di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno si fabbrica il giornale. e Ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto. 
Oggi Periscopio ha oltre 320.000 lettori, ma vogliamo crescere e farsi conoscere. Dipenderà da chi lo scrive ma soprattutto da chi lo legge e lo condivide con chi ancora non lo conosce. Per una volta, stare nella stessa barca può essere una avventura affascinante.  Buona navigazione a tutti.

Tutti i contenuti di Periscopio, salvo espressa indicazione, sono free. Possono essere liberamente stampati, diffusi e ripubblicati, indicando fonte, autore e data di pubblicazione su questo quotidiano.

Francesco Monini
direttore responsabile


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it