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di Elisa Manici e Lorenzo Mattana

Walter ha ottanta anni suonati, ma a dispetto dell’età che avanza dimostra ancora un’energia e una forza d’animo da fare invidia. Da diciasette anni è volontario dell’Auser di Bologna, una onlus nata nel 1989 per finalità assistenziali, e attualmente coordina a Pieve di Cento circa settanta iscritti. «Smetterò il più tardi possibile, perché quello che faccio mi dà tanta soddisfazione – dice con voce squillante -. Finché mi sosterranno le forze io continuerò a fare il volontario». Come l’acqua che scava nella roccia, l’azione di questi angeli del quotidiano è silenziosa, costante, paziente. E preziosissima: «La nostra forza è la presenza costante, essere a completa disposizione di tutti in qualsiasi momento – spiega con orgoglio Walter – cerchiamo di farci trovare pronti quando ce n’è bisogno». Un’attività a trecentosessanta gradi che va dalla distribuzione giornaliera dei pasti agli anziani, al trasporto per i disabili e all’assistenza agli ammalati, passando per la manutenzione delle zone verdi del paese e la gestione dei centri culturali. Quello di Walter è l’eroismo dei piccoli gesti, dove anche una semplice chiacchierata con una persona sola può diventare un atto di straordinaria generosità.«Per diverso tempo ho aiutato una signora anziana nelle piccole faccende giornaliere. Purtroppo lei era incontinente e si vergognava di questa condizione, perché aveva bisogno dei pannoloni. Un giorno l’accompagnai io a comprarli, perché questa cosa le creava veramente tantissimo disagio. Una volta acquistati, mi chiese di portarla a fare la spesa e volle regalarmi a tutti i costi un panettone. Mi ricordo che ci trattenemmo a parlare a casa sua per qualche ora e poi al momento di andarmene mi disse di aver passato la più bella giornata della sua vita. Quella stessa notte la signora morì. Quando ci penso ancora mi commuovo».

Walter e i volontari dell’Auser di Pieve di Cento non sono altro che il frammento di un mondo che in Emilia-Romagna vanta dei numeri straordinari e che negli ultimi dieci anni ha avuto una crescita imponente. Secondo i dati pubblicati a settembre dall’Istat riguardanti il 9° Censimento su “Industria e servizi, Istituzioni pubbliche e Non-profit”, il terzo settore dal 2001 al 2011 ha avuto un incremento del 27,2%, con oltre 25 mila enti e associazioni rilevate. Tra addetti, lavoratori esterni, lavoratori temporanei e semplici volontari questo settore può contare su un vero e proprio esercito di oltre 500 mila persone, impegnato in tutti gli ambiti del sociale: dall’assistenza agli anziani, allo sport e alla cultura, passando anche per ambiente e salute. Un vero e proprio gigante, una realtà talmente tanto radicata nel tessuto sociale regionale che più di un 1/8 della popolazione risulta essere a vario titolo coinvolta nel non-profit.

Ma che cos’è esattamente il Terzo settore, e come spiegarne lo straordinario boom? In breve, e senza pretesa di esaustività, dato che si tratta di una realtà in continua evoluzione, è il complesso di istituzioni che non sono né Stato, né mercato, soggetti di natura privata che producono beni e servizi per la collettività, siano essi associazioni di volontariato o di promozione sociale, cooperative sociali, Ong, eccetera. Secondo Stefano Zamagni, professore ordinario di economia politica dell’Università di Bologna ed esperto di terzo settore, l’esplosione del non-profit è soprattutto la conseguenza di un mutamento del modello di mercato classico, che però la società e la politica stentano ancora a percepire:«Spesso le spiegazioni che vengono date di questo fenomeno sono superficiali – spiega Zamagni -. La verità è che siamo in presenza, in Italia, come altrove, di una trasformazione del modello di mercato capitalista. Si sta passando da un modello di capitalismo centrato tutto sulla dualità Stato-mercato, a un modello tricotomico: Stato, mercato e società civile. Questo vuol dire che i soggetti della società civile hanno una rilevanza economica che in passato non avevano, perché in precedenza il non-profit era sempre stato redistributivo e aveva soltanto finalità solidaristico-assistenziali. La novità di questi 10 -15 anni – prosegue Zamagni – è che il non-profit si sta trasformando in soggetto produttivo, cioè produce valore aggiunto. Questo è il vero fatto nuovo di cui, però, non si ha ancora la percezione». Il terzo settore, insomma, smette i panni casual del semplice volontario per indossare giacca e cravatta. Il mondo non-profit non è più solo un insieme di generosi militanti, di encomiabili artigiani della bontà, ma si sta trasformando in un soggetto costituito da persone con competenze specifiche e capacità gestionali.

«Quelle del non-profit sono vere e proprie imprese che a differenza della Fiat, ad esempio, hanno il fine di soddisfare dei bisogni. La gente, però, è rimasta ancorata a un’idea del non-profit legata al semplice volontariato e non lo vede come un vero e proprio settore produttivo. Il boom degli ultimi dieci anni significa che in giro per l’Italia le persone non ne possono più, premono per andare in questa direzione». Secondo l’economista, l’ingresso della società civile come vero e proprio protagonista nel sistema economico, risponde anche anche a due problemi: il progressivo ritirarsi del pubblico e la crescente richiesta dei così detti “beni relazionali”. «Sicuramente la riduzione dell’intervento del settore pubblico nella società ha rappresentato una componente che spiega l’aumento del non-profit – chiarisce Zamagni -. Il progressivo ritirarsi dello Stato e delle Regioni dal welfare, per ragioni di finanza pubblica, ha stimolato una maggiore vitalità del terzo settore». Un ambito, quello del non-profit, che si sta sempre di più affermando come pilastro fondamentale della società moderna, una spina dorsale solida quanto invisibile che però riesce ad assicurare dei servizi che altrimenti sarebbero destinati all’oblio. «Ci sono tipologie di beni – spiega Zamagni – che né la formula pubblica, né la formula privata si dimostrano capaci di raggiungere. La più importante di queste categorie è quella dei “beni comuni”, come i beni culturali e ambientali. Questi beni – prosegue Zamagni – non possono essere gestiti in maniera adeguata né dal pubblico, né dal privato. Perciò interviene la società civile, con soggetti come le cooperative. Ad esempio, a Melpignano in provinca di Lecce, quattro anni fa è nata la prima cooperativa di comunità, un modello che non esisteva prima. Ed oggi le cooperative di comunità in Emilia-Romagna si stanno diffondendo a macchia d’olio, soprattutto nel reggiano, nel modenese e nel parmense. Perché per gestire determinati servizi, come l’energia elettrica, la raccolta dei rifiuti o la conservazione dei beni culturali, il pubblico non può più far niente, il privato non ha un interesse economico ad occuparsene e quindi ecco spiegata la nuova formula della cooperativa di comunità. Infine – conclude Zamagni – le persone ormai non si accontentano più di guardare il lato materiale dei servizi che vengono offerti, ma considerano anche il lato cosiddetto “spirituale”. Oggi le persone chiedono anche “beni relazionali”, oltre al servizio puro e semplice. Se vado in un ospedale, vengo curato, ma se vengo maltrattato non posso ritenermi soddisfatto del servizio offerto. Questo è un segnale che ormai le persone chiedono anche relazioni. Quanto più aumenta il bisogno di relazionalità, tanto più aumentano i soggetti non-profit che per loro scelta libera realizzano e soddisfano questi bisogni».

La sfida più importante per il non-profit oggi è trovare una quadra tra la necessità di essere un soggetto che opera sul mercato, e il non tradire la sua natura primigenia, solidaristica, come in parte è già accaduto al mondo cooperativo, uno degli assi portanti dell’economia emiliano-romagnola, e che pure fa parte del Terzo Settore. Paolo Mandini, dirigente di Coop Estense, oggi in pensione, ammette senza difficoltà che «il mondo cooperativo negli ultimi 10 anni ha subito una forte influenza del mercato. La crisi economica non ha certo esaltato la socialità, la mutualità e la solidarietà. Spesso sotto il nome di cooperativa arrivano cose spurie, i valori vanno verificati sul campo. La recessione, unita alla volontà di essere competitivi, si scarica sul costo del lavoro, anche se, sicuramente, rispetto al privato c’è un modo di procedere più sensibile. Un altro tema delicato e troppo spesso evitato è quello dell’organizzazione del lavoro, in una realtà composta in gran parte da donne». Mandini si richiama alla figura di Francesco I: «Alla luce di quanto sta dicendo questo papa, anche questo mondo deve ripartire dai suoi valori di base, quelli cooperativi, che sicuramente negli ultimi anni non hanno sempre brillato. Ancora e soprattutto in Emilia Romagna ci sono delle cose che vanno recuperate, e altre da rovesciare completamente, come Unipol». Secondo Mandini «bisogna vivificare un’identità, una diversità cooperativa, che oggi non è certo quella dell’immediato dopoguerra. Le cooperative nacquero per condizionare il mercato, non certo per farsene influenzare così pesantemente». Ma la sua analisi non si ferma alle criticità: «Terzo settore e mondo cooperativo, anche quello delle coop di consumo, che ufficialmente non ne fa parte, se uniscono le loro forze possono diventare un elemento dirompente, che può dare lavoro a molti giovani. Sono, a mio avviso, le risposte più moderne che si possono dare a una società in crisi valoriale, oltre che economica». Un rammarico, per Mandini, uomo storicamente di sinistra, è che «nel Terzo settore operano per lo più realtà di ispirazione cattolica, mentre la sinistra non se ne sta occupando un granché. Qui a Ferrara, ad esempio, Don Bedin con la sua associazione Viale K fa un lavoro enorme per i migranti, trovandosi spesso contro la gente del quartiere, che non si rende conto che col suo impegno disinnesca tensioni sociali altrimenti terribili».

Anche Luca De Paoli, portavoce del Forum Terzo Settore di Bologna, riconosce senza ritrosie che ci sono difficoltà a livello valoriale: “Posto che la partecipazione l’hanno persa tutti, la nostra strada è aprire il più possibile nuove relazioni affinché si recuperi da parte di tutti lo spirito originario. Certe questioni non sono un problema di soldi, ma di scelte. Nessun imbarazzo, quindi, nel tener dentro giganti come Legacoop, ma volontà di far sì che ci sia sempre più contaminazione. E’ pur vero che nelle coop più grandi qualcosa si è perso, è un problema culturale esistente. Si mantiene ben vivo, invece, in quelle più piccole, che spesso riescono a sopravvivere grazie alla tensione ideale di chi ci lavora”.

Il Forum bolognese è composto da 33 organizzazioni e dal Centro Servizi per il Volontariato (Csv).Ha un duplice obiettivo: mettere in rete, creando strategie e politiche comuni, strutture di natura diversa, ma tutte -almeno in teoria- incentrate sul benessere della persona più che sull’interesse economico; inoltre cerca di influenzare le politiche socio-sanitarie di Regione, Provincia e Comune. Riuscendoci: in Regione contribuendo alle scelte nella programmazione sociale e sanitaria, in Provincia con la creazione di un tavolo permanente di confronto, in Comune con la partecipazione ai piani di zona. Ma i rapporti con le amministrazioni pubbliche non sono sempre e solo idilliaci, anzi. Il Forum, in collaborazione con la Provincia di Bologna, ha prodotto uno studio sul ruolo e l’evoluzione del Terzo Settore nel nostro territorio, presentato il 10 ottobre scorso, in cui, tra le varie ricerche fatte, c’è anche un confronto tra il Patto per la sussidiarietà e i programmi di mandato degli stessi Comuni che l’hanno sottoscritto, per vedere se e quanto è presente la sussidiarietà. I risultati sono sorprendenti. In negativo, nel senso che il ruolo cardine svolto dal Terzo settore nel welfare locale in molti Comuni è da un lato riconosciuto sulla carta, mentre dall’altro questa consapevolezza non si accompagna ad azioni concrete che permettano un suo sviluppo.
Il non-profit emiliano romagnolo, nella sua costante espansione, che pure non esprime ancora in pieno le sue potenzialità di sviluppo, è, insomma, chiamato in causa per assolvere a mille compiti, tutti importantissimi: risolvere le criticità ideologiche già presenti nel mondo cooperativo, sostituirsi al welfare pubblico a costo zero, dare nuova linfa ai valori della partecipazione e della solidarietà in un’era in cui il dio denaro li ha stritolati, fare rete per aumentare il capitale sociale della collettività.

[© www.lastefani.it]

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

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Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

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