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Viaggio nel tempo e nello spazio. Il mio carburante è la musica, la mia musica. La inserisco nel serbatoio dei ricordi e parto. Questa volta è L’Anno del Gatto e avevo undici anni. Speravo ancora nelle domeniche silenziose, quando potevo correre e giocare a pallone sulle strade deserte, oppure con le bici a sfrecciare negli incroci coi semafori spenti. Noi, per un giorno alla settimana, padroni della città senza petrolio.
Poi quel sogno, durato il tempo di un film in superotto, finì, e tornammo a giocare nei nostri cortili, nei campetti recintati, lontani dai pericoli. Il ricordo di un ricordo. È vago, eppure è rimasto perché d’allora quei giorni strani, silenziosi, vissuti distrattamente da me e dai miei amici, non sono più ritornati.
Ovviamente il brano racconta tutt’altro, ma che importa? A che serve la musica se non a liberare le emozioni? E le emozioni non hanno argomenti, ma immagini in ordine sparso, attirate dalle note di una canzone ascoltata cent’anni prima.
Un luogo lontano, sconosciuto. L’orologio si è fermato e ho dimenticato dove devo andare, cosa devo fare. Non importa che sia un viaggio di lavoro o una vacanza, che sia un commesso viaggiatore o un turista in cerca d’avventure. Ciò che conta è che ora sei qui con me, nel tuo vestito di seta, pronta a sorridermi e a prendermi le mani per portarmi con te.
Nell’Anno del Gatto, oggi come allora, rivivo la nostalgia di una felicità forse mai posseduta. Eppure la musica mi dice altro. È un incantesimo da cui non voglio svegliarmi mai, e così prego di avere il coraggio di piangere ogni volta, nel sublime, meraviglioso ricordo di ciò che è passato.
The Year of the Cat (Al Stewart, 1976)
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