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“Come vivere felici nonostante tutto”. Un bel titolo per l’evento che c’era venerdì sera al Festival di Internazionale a Ferrara. In pratica è una conversazione con Oliver Burkeman, giornalista inglese di The Guardian che ogni settimana scrive articoli, tradotti e ripubblicati dalla rivista Internazionale. E chi è che non vuole essere felice, in effetti? Nonostante tutto, poi…! Dopo essere andati ad ascoltarlo, bisogna dire che vale la pena sentirlo (o leggerlo). Ecco perché.

1. Riderci un po’ su. Il messaggio di Burkeman è una buona cosa, prima di tutto perché riesce a farti ridere (e questo è già un buon avvio di felicità). Attacca raccontandoti di tutti i corsi motivazionali che ha fatto inutilmente, delle attivazioni di chakra a cui si è sottoposto, dei manuali di auto-aiuto e di pensiero positivo che ha letto e che ha cercato di mettere in pratica senza riuscire a sentirsi meglio. Racconta anche di come ha provato a “visualizzare” la situazione che desiderava, come predicano i guru del pensiero positivo. Ma questo non faceva che aumentargli la paura di non riuscire a ottenere quelle cose. Dice: “Cercando di convincermi che tutto sarebbe andato bene, se poi le cose andavano male diventava una tragedia”. L’eccesso di positivismo, secondo Burkeman, è proprio pericoloso. Per lui è stato decisivo nella crisi finanziaria del 2008. Ricorda: “Venivi incoraggiato a comprare a tutti i costi la casa dei tuoi sogni. Non importa che tu non avessi i soldi. Come fa Trump adesso, una campagna elettorale fatta tutta di superlativi assoluti. Miglioriamo! Ma come? Non ha importanza, l’importante è crederci. Mah…”

2. Elogio del pessimismo. La seconda intuizione viene a Burkeman dalle persone che si definiscono stoiche, che secondo lui si fanno dei film anche loro, ma di solito sono film incentrati sul caso in cui le cose andassero male. In questo modo – assicura – riesci a ragionare in maniera più pacata sul peggior scenario possibile. “Hai paura di fare una brutta figura in pubblico?”, chiede. La risposta lui ce l’ha: “Affrontala e falla, quella brutta figura!”. E lui l’ha fatto, rivela. La paura della figuraccia lo assillava, così una volta decide di prendere di petto quella paura. Sale sulla metro di Londra e, a ogni fermata, annuncia a voce alta il nome della stazione. “All’inizio – ricorda – è stato abbastanza terribile. Il cuore mi batteva all’impazzata e sentivo sudori freddi”. Poi, fermata dopo fermata, si rende conto che le persone a mala pena alzano gli occhi dal giornale o dal tablet che stanno leggendo. “Non c’è da preoccuparsi tanto di quello che pensano di voi – conclude – perché tutti sono talmente presi dalle loro preoccupazioni, che a mala pena si accorgono di quello che fate. E la paura crolla. Addirittura ti rendi conto che, quasi quasi, non stai neanche facendo una brutta figura, ma potresti sostenere che stai facendo qualcosa che è di aiuto agli altri passeggeri!”.

3. Male comune. In Massachusetts, Burkeman scopre che c’è un “Museo dei prodotti invenduti dei supermercati”. Una marea di prodotti falliti, a partire dalle uova sbattute da farsi in macchina e da mangiare con la cannuccia mentre si guida, per arrivare fino alla New Coke della Coca-Cola, che ha dovuto subito ritirarla perché tutti volevano quella vecchia e originale. “Non se ne parla mai – fa notare Burkeman – ma ci sono tantissimi prodotti falliti di aziende di gran successo”. Fallire, insomma, è facile e diffuso, ma non se ne parla mai perché è considerato quasi un tabù.

4. La morte esiste, viviamo! In Messico Burkeman scopre che la gente trascorre tempo sulle tombe dei propri cari. “Lo fanno così, semplicemente. Si trovano lì, mangiano, parlano”. E sottolinea che è importante reintrodurre il pensiero della morte nella realtà quotidiana. “La morte – dice – è la madre di tutte le nostre paure. Invece va pensata come quello che è, una cosa che accade e basta, non una paura così tremenda da non poterla nemmeno nominare”. A conferma della validità di questa idea, arriva un intervento dal pubblico di Ferrara. Nella platea del Teatro Nuovo prende parola una pedagogista che lavora con i bambini ricoverati in ospedale per malattie molto gravi. E racconta la sorpresa che ha avuto trovandosi davanti alla naturalezza assoluta con cui quei bambini accettano l’idea della morte, come qualcosa di possibile e ovvio. Ma anche il modo in cui poi, con altrettanta facilità, quei bambini sono pronti in ogni momento a giocare, ridere e interessarsi delle cose, perché sono molto presi da ogni istante del presente più che dall’idea di futuro.

5. Sogna e metti in pratica. Ancora dal pubblico la sollecitazione che porta al suggerimento conclusivo. Non è poi del tutto vero che bisogna sempre pensare negativo. Un partecipante all’incontro fa notare a Burkeman che avere un obiettivo o una mèta è una buona cosa, che il sogno e l’utopia sono belli, perché con quelli in testa puoi darti da fare per portare avanti le cose che servono a realizzarli. Il giornalista britannico-ricercatore di felicità ammette: “Sì, visualizzare le cose positive va bene, se lo fai per mettere a fuoco gli strumenti che ti possono portare a quel risultato. Più che visualizzare un gol, ad esempio, un calciatore deve visualizzare la buona falcata, lo scatto giusto; deve esercitarsi su quelli. Anche gli artisti, i creativi, i grandi romanzieri lo dicono. Più che l’ispirazione illuminante, conta la costanza, mettersi con determinazione a lavorare ogni giorno”. Dopo non importa se non fai sempre gol. Importa che te la giochi bene. Chi ascoltava Francesco De Gregori, del resto, lo sa: un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia. E, se sbagli un calcio di rigore, ti ricordi che “non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore”.

Festival di Internazionale è a Ferrara da venerdì 30 settembre a domenica 2 ottobre 2016 per la decima edizione.

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Giorgia Mazzotti

Da sempre attenta al rapporto tra parola e immagine, è giornalista professionista. Laurea in Lettere e filosofia e Accademia di belle arti, è autrice di “Breviario della coppia” (Corraini, Mantova 1996), “Tazio Nuvolari. Luoghi e dimore” (Ogni Uomo è Tutti Gli Uomini, Bologna 2012) e del contributo su “La comunicazione, la stampa e l’editoria” in “Arte contemporanea a Ferrara” sull’attività espositiva di Palazzo dei Diamanti 1963-1993 (collana Studi Umanistici Università di Ferrara, Mimesis, Milano 2017). Ha curato la mostra “Gian Pietro Testa, il giornalista che amava dipingere”

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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