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In questi anni di crisi Luciano Gallino, uno dei sociologi italiani più autorevoli, ha pubblicato almeno tre libri importanti per comprendere la genesi del problema, la sua evoluzione i possibili sviluppi e le strategie per uscirne senza perdere pezzi significativi di democrazia: “Con i soldi degli altri” (2009), “Finanzcapitalismo” (2011), “Il colpo di Stato di banche e governi” (2013). Nel primo ha messo in risalto gli attori che gestiscono i risparmi di milioni di persone e i meccanismi che consentono loro di investirli sistematicamente in base all’unico criterio guida della massimizzazione a breve termine del rendimento finanziario. Nel secondo ha descritto la mega-macchina finanziaria, di estensione planetaria e capillarmente diffusa in ogni sistema sociale, finalizzata a massimizzare il valore estraibile dagli esseri umani e dagli ecosistemi, attraverso la quale il denaro viene impiegato, investito e fatto circolare sui mercati, allo scopo di produrre una quantità ancora maggiore di danaro, in un crescendo patologico sempre più fuori controllo. Nel terzo ha descritto il processo attraverso il quale siamo arrivati al tracollo finanziario di questi anni, dimostrando come esso non sia derivato da un incidente del sistema né sia stato prodotto dal debito pubblico che gli Stati avrebbero accumulato per sostenere una spesa sociale eccessiva, ma sia stato causato dall’ostinato perseguimento dell’accumulazione finanziaria ad ogni costo, per altro sostenuta da una lunga serie di decisioni politiche.
In tutti i testi Gallino non mancava di proporre strategie, suggerire “riforme impossibili ma necessarie”, ricercare e proporre “politiche anti-crisi”.

Professore, nel 2013 lei pubblicava “Il colpo di Stato di banche e governi”. Il quadro è ancora lo stesso o si scorgono dopo due anni segni di cambiamento?
La situazione rimane quella descritta nel testo. Non c’è stata nessuna iniziativa concreta da parte dei governi per porre fine alle attività delle banche che hanno causato la crisi; anzi, ci sono le premesse perché la crisi finanziaria possa ritornare. Oggi, e malgrado il monito di quel che è successo, l’ammontare dei derivati è dell’ordine dei quadrilioni di dollari, cifre talmente grandi da essere inconcepibili. Comunque enormemente superiori alla somma dei Pil di tutti i Paesi. Nulla è stato fatto per rivedere le teorie economiche neoliberali. Nulla per riportare la finanza al servizio dell’economia
Poco o nulla per creare occupazione mentre il lavoro sta scomparendo.

Lei sostiene che è l’occupazione che genera sviluppo e non il contrario. Che prospettive vede per il lavoro in Italia? 
Le previsioni non sono rosee e in Italia anche peggiori che in altri Paesi. La base produttiva italiana è crollata da oltre 30 anni, le imprese chiuse, privatizzate, vendute o spesso svendute, scarsissimi investimenti in ricerca e sviluppo. Non esiste da tempo nessuna seria politica industriale e i governi non sembrano averne cognizione. Dopo le frettolose privatizzazioni avviate negli anni ’90, ad esempio quella dell’Iri, la privatizzazione delle banche, nulla è stato fatto per riparare o orientare un sistema cambiato; è notizia di questi giorni la vendita di Pirelli, oggi quella di Breda Ferroviaria, la compagnia di bandiera appartiene ad altri, mentre Fiat è praticamente emigrata.
In queste condizioni è molto difficile pensare di risalire la china.

Lo Stato sociale, come lei afferma, è un’invenzione politica senza precedenti in base al quale la società intera si assume la responsabilità economica e sociale per ciascun singolo individuo, quale che sia la sua posizione e i mezzi che possiede. Da anni questa istituzione è sotto attacco da parte di forze che mirano a smantellarlo. Cosa succederà nel futuro prossimo?
Il rischio è quello di peggiorare ulteriormente, continuando a tagliare i servizi sanitari e sociali e quindi a far pagare la crisi ai soggetti che non l’hanno causata, come impiegati, operai, pensionati, famiglie, piccole imprese. Tutti soggetti che finora hanno da soli pagato il prezzo di una crisi di cui non sono responsabili. In più, in Italia, sono stati fatti tagli anche laddove le cifre non li sostenevano, usando i dati in modo scorretto; si è speculato usando erroneamente i numeri per sostenere molti tagli. Un caso lampante è quello delle pensioni i cui costi sono stati usati a torto per dimostrare l’insostenibilità della spesa pubblica.

Siamo forse alla fine della democrazia? Cosa possono fare i cittadini per affrontare questo stato di cose?
Sul versante positivo si nota un aumento del numero di persone che, a prescindere da appartenenze politiche, ideologie, posizioni sociali, non sono convinte, hanno capito che i governi non stanno facendo ciò che sarebbe bene fare. Si tratta di una pluralità di soggetti che dovrebbe trovare un punto di raccolta, una rappresentanza, un’unità d’intenti.
A fronte di questo attivismo i sondaggi danno però una percentuale di astensione altissima oltre il 40% e, in tale situazione, una piccola frazione di elettori esprimerebbe il governo dello Stato. Una situazione davvero inquietante per la democrazia rappresentativa anche se non è solo un problema italiano.
Infine i governi hanno premiato e premiano le banche, hanno immobilizzato per salvarle enormi capitali (4,5 trilioni di euro); si sono inventati uno stato di eccezione e hanno messo tutti a tirare la cinghia.
E’ la fine della democrazia come la conosciamo, quando potenti come la Merkel e la presidente del Fondo monetario internazionale ritengono che la democrazia vada bene solo se riesce ad andare d’accordo con il sistema d mercato. Si richiede in altre parole di mutilare la democrazia per renderla conforma al mercato piuttosto che adattare questo (che va bene ed è rispettabilissimo a certe condizioni) a quella. In queste condizioni andiamo verso una democrazia autoritaria.

In questo contesto, i politici italiani hanno agito come hanno agito per  calcolo politico, per strategia, per scarsa conoscenza o altro?
I politici, si sono caratterizzati, mediamente, per una forte commistione tra due fattori:  da un lato l’ignoranza di cosa è avvenuto, di cosa ha causato la crisi, del funzionamento del mondo finanziario, della globalizzazione e del suo significato. Dall’altro l’identificazione con l’ideologia liberista in base alla quale si pensa che i mercati risolvano tutto.

La situazione appare piuttosto inquietante: spostiamoci avanti di qualche anno, nel 2020: cosa possiamo immaginare?
Non mi piace guardare nella sfera di cristallo perché credo che il futuro si costruisce, si debba costruire. Potrebbe nascere qualcosa di buono se si sviluppa un nuovo soggetto collettivo, un nuovo partito, qualcosa insomma che accetti la sfida e raccolga le istanze di quanti sono stati deprivati dalla crisi non avendone causa.
Grecia e Spagna possono essere un esempio con Tsipras e Polemos, insieme al movimento nascente portoghese, tutti affiancati da eccellenti economisti e in grado, si spera, di contrattare seriamente con l’Europa.
O si cambia o si rischia moltissimo. Dobbiamo impegnarci per cambiare. Nel mio piccolo, come intellettuale m’impegno a scrivere per spiegare cosa è successo, da dove nasce la crisi; e per proporre qualche soluzione.

E Luciano Gallino è un intellettuale vero, uno di quelli che ricercano e mettono insieme i pezzi disorganizzati e frammentati della società; uno che coordina fatti lontani e ci restituisce un quadro coerente ristabilendo la logica dove sembravano regnare la follia e l’arbitrarietà più spietata. Una voce lucida quanto mai necessaria, in anni in cui la voce della coscienza critica si è offuscata fino a sparire per lasciar posto agli strilli e alle opinioni di personaggi di dubbio spessore e moralità.

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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