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L’Invalsi, ma i comuni mortali non credo sappiano cosa si cela dietro il fatidico acronimo, sta per Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema. Nel caso specifico il sistema è quello scolastico del nostro Paese.

A leggere che nel decreto Mille proroghe è previsto che l’esito dei test Invalsi, che dovranno affrontare gli studenti dell’ultimo anno delle superiori per essere ammessi all’esame di stato, non fa curricolo, vale a dire sarà ininfluente per la valutazione finale e per il profilo delle competenze in uscita, dà l’impressione  che a cadere a pezzi oltre agli edifici scolastici sia anche il sistema formativo. Non è che la cosa sia nuova, già l’ex Ministro dell’istruzione in quota Lega aveva provveduto a togliere le prove Invalsi dal curricolo degli studenti di terza media. Ora anche la Ministra grillina si accoda, per dire quale lungimiranza guidi chi siede al governo delle nostre scuole.

Evidentemente, su ogni altra riflessione, fa buon gioco un facile populismo che porta ad assecondare quella parte del mondo scolastico da sempre ostile nei confronti delle prove Invalsi, con l’intento di accattivarsene le simpatie. Ora, l’idea che ha ispirato il provvedimento è che a contare sono i voti dei docenti e non l’esito ottenuto ai test dell’Invalsi in italiano, matematica e lingua inglese.

Qualunque persona dotata di buon senso è, a questo punto, tentata di chiedersi: a che fare ci teniamo un istituto di valutazione se su di esso prevale il giudizio degli insegnanti? È come se il medico ci diagnosticasse una malattia che però, a seguito delle analisi, risultasse essere tutt’altra cosa da quanto ipotizzato dal nostro dottore. Ma siccome sul responso delle analisi prevale la diagnosi del medico, degli esiti degli esami non si tiene conto. Sarebbe un modo veloce per far fuori buona parte della popolazione. Infatti, con questo metodo, il nostro sistema scuola si colloca nelle ultime posizioni delle classifiche Ocse, con preoccupanti divari tra nord e sud del Paese.

Il compito dell’Invalsi non è quello di dare voti, ma di fornire alle scuole e agli studenti indicazioni per individuare i punti di forza e i punti deboli. Funziona come le analisi cliniche che ci dicono cosa va e cosa non va nel nostro corpo. Ma senza queste analisi, nessun medico potrebbe intervenire a somministrare il farmaco e la cura corretti. Altrettanto vale per il sistema scolastico, sta poi alla competenza professionale degli insegnanti intervenire per migliorare la didattica e favorire la riuscita di ogni studente.

Il compito dei docenti non consiste nel distribuire voti, ma nell’innalzare i livelli di istruzione e di competenza degli studenti. E’ questo il ruolo centrale della scuola nella società della conoscenza. E non è possibile farlo senza l’opera preziosa di uno strumento fondamentale come un istituto nazionale di valutazione. Non è mica un delitto se qualcuno ci indica che possiamo fare meglio, sia professionalmente che come sistema; è invece una fonte preziosa di arricchimento individuale e collettivo.

Assistiamo invece a una scuola in fuga da se stessa, che teme ogni verifica, ogni valutazione, ogni esito di prove oggettive, denunciando così un profondo senso di insicurezza. L’ostilità alle prove Invalsi è segno di una professionalità debole, di una sfiducia nei confronti delle proprie competenze da parte della classe insegnante. Grave, perché se un docente non è fornito di autostima, come possono avere fiducia in lui gli studenti, le famiglie, la società. E forse anche con questo si spiega come siano andati deteriorandosi in alcuni casi i rapporti tra genitori e scuola.

Non è fuggendo da sé e dalle proprie responsabilità che si affrontano i tanti problemi del nostro sistema scolastico. La nostra scuola ha necessità di incontrare l’Invalsi e non di fuggire da esso. I nostri studenti devono essere garantiti, devono sapere cioè che il loro tempo e i loro sforzi compiuti negli studi sono serviti a qualcosa, che fanno curricolo e certificano le loro competenze. E’ quello che da anni ci chiede l’Europa.

La scuola ha bisogno di un giudice terzo che l’aiuti a migliorarsi, che consenta agli studenti di giungere al termine degli studi sicuri che le loro competenze valgono, che saranno riconosciute nella società e sul mercato del lavoro. E questo non lo può fare il voto di uno o di dieci insegnanti, ma solo un sistema di valutazione nazionale riconosciuto a livello europeo e mondiale.

Quello che noi abbiamo è l’Invalsi, che ha dimostrato di funzionare bene. Non è necessario copiare gli americani che affidano agli esiti dei test nazionali la sorte delle scuole e dei docenti. La nostra storia e la nostra cultura non sono queste. Dovremmo smetterla di continuare a nasconderci dietro i voti, dovremmo lasciare la valutazione, che è questione difficile e complessa, a chi la sa fare e la sa gestire, non per giudicare ma per aiutarci ad essere sempre migliori.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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