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di Rosario Castelli

«Ce ne ricorderemo di questo pianeta»: questa frase Leonardo Sciascia l’aveva letta probabilmente da giovane in un libro de Il Borghese di Leo Longanesi. Nei folgoranti frammenti di Parliamo dell’elefante, diario dei tumultuosi anni della guerra, dal 1938 al ’46, si legge infatti: «Usciamo. Nella piazza deserta stride una civetta e i nostri passi risuonano sul selciato come quelli di un’antica ronda. La luce dell’osteria si spegne e nelle larghe pozzanghere la luna lascia riflessi d’argento. “È triste il mondo, signori miei”, disse Stefano. “Non so chi, ma qualcuno ha detto: Ci ricorderemo di questo pianeta. Sì, ce ne ricorderemo!”».

Il racalmutese, che dell’Omnibus era stato precoce e assiduo lettore, e che all’insegna di Longanesi aveva fatto nascere le sue Favole della dittatura, di quella frase si sarebbe ricordato per tutta la vita. Tanto più al tramonto e quando, al di là della sua attribuzione a una precisa fonte letteraria, gli sarebbe risuonata in testa, con il senso del rimpianto di chi affida alla memoria del proprio passaggio sulla terra la delega in bianco di un’effimera sopravvivenza: il ricordo da un lato, dunque, l’hic et nunc dall’altro a illuminare una concezione che fa del mondo una necessità e una fatalità, l’approdo di un percorso che ha salde radici nel passato e investe, nel presente, tanto l’autore che i propri contemporanei. Ovvero come l’ultima deliberata contraddizione di un uomo dalla vocazione eretica e anticonformista e che, piuttosto, avrebbe voluto che sulla propria lapide campeggiasse la frase: «contraddisse e si contraddisse».

Questa condizione lo scrittore la incarna in Voltaire, prima di volgersi all’haiku di quel Villiers de l’Isle-Adam cui un altro degli auctores sciasciani – Jorge Luis Borges – aveva dedicato un volume della Biblioteca di Babele, definendolo uno specialista in «orrori morali».
Nel 1979, in un articolo per il Corriere della Se­ra, Sciascia definiva lo scrittore argentino «il più grande teologo del nostro tempo. Un teologo ateo. Vale a dire il segno più alto della contraddizione in cui viviamo» e che suona come una sorta di auto-definizione per il tramite di uno schermo, quello del letterato sudamericano che incontrerà a Roma l’anno dopo e che è un altro polo fondamentale in cui inquadrare la vocazione del siciliano al paradoxe di diderottiana memoria, al rovesciamento cioè di ogni verità accettata in verità che appaiono inaccettabili.
Un autore che gli apparirà come un ‘classico’, il «più significativo del nostro tempo, delle nostre vertigini», tornando frequentemente a citarlo e chiosarlo, elevandolo a modello di «filologiche e filosofiche in­dagini», di «misteriose ricostruzioni di dissepolti frammenti della storia e del pensiero umano», quali erano peraltro quelle di Sciascia stesso. E tuttavia analoghe e ben più forti sollecitazioni potevano giungere da altri scrittori come Luigi Pirandello e Alberto Savinio, trovando semmai un comune denominatore nell’idea, questa sì borghesiana, della Letteratura come unica forma di conoscenza possibile della realtà, di quella realtà i cui confini con la scrittura sono labili fino al punto di confondersi.

Era questa fiducia a fargli preferire la definizione di “uomo di lettere” a quella d’intellettuale, categoria quest’ultima segnata da una sostanziale indistinzione che finisce con l’accomunare figure eterogenee, legate tra loro da un malinteso senso di compromissione con la realtà. “Intellettuale” è vocabolo che si adatta al philosophe dell’epoca dei Lumi come al poeta romantico dalle pose titaniche, all’autore compagno di strada di un partito come al militante organico a un’ideologia. Ma Sciascia non era né Voltaire né Byron né Vittorini e nemmeno uno dei tanti corifei dell’imperante intellettualità liquida profetizzata da Zygmunt Bauman.
Se a un archetipo volessimo guardare, allora, il nome che ci viene in mente è semmai quello di Émile Zola, strenuo apostolo del primato della letteratura come strumento di smascheramento dei lati occulti della retorica dominante, assertore del principio secondo cui solo le lettere «regnano eternamente […] sono l’assoluto, mentre la politica è il relativo»: lo scrittore che usa le parole per diagnosticare i mali, senza pretendere d’imporre i rimedi che competono invece a chi governa, alieno da ogni fanatismo e detentore di un capitale simbolico che è unicamente quello della parola letteraria, con il proprio bagaglio di valori universali ed eterni.
Il modello che si afferma, a partire dall’affaire Dreyfus, mira a escludere la coazione all’impegno e a restituire al letterato una funzione, la stessa che saprà incarnare Pasolini, prima di Sciascia, ma con un sovrappiù di compromissione fisica ed energica eloquenza. È il privilegio di una Verità congetturale che detiene lo scrittore che, come scrisse nel famoso Romanzo delle stragi che si legge negli Scritti corsari, «cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero».

La concezione della letteratura come intatto serbatoio cui attingere per trovare un senso anche all’insensatezza della Storia, Sciascia l’aveva formulata nel racconto Il Quarantotto laddove riconosceva nella scrittura «un modo di trovare consolazione e riposo; un modo di ritrovarmi, al di fuori delle contraddizioni della vita, finalmente in un destino di verità», un’accezione che traluce anche nelle parole del protagonista dell’Antimonio quando afferma: «Io credo nel mistero delle parole, e che le parole possano diventare vita, destino; così come diventano bellezza».
La letteratura non solo conosce la verità e la rispecchia, ma la redime, pacificandola nelle sue contraddizioni sicché «l’uomo, col suo cuore vivo, per la pace del suo cuore, può legare in armonia pietra e luce, ogni cosa alzare ed ordinare al di sopra di sé stesso».

È della capacità di opporsi al conformismo, di rinunciare al balsamo delle certezze accomodanti, di smascherare le imposture del Potere, di denunciare le funamboliche piroette del trasformismo, attraverso il contravveleno dei libri e di uno scrivere non compromissorio che parlano tutte le opere di Sciascia e di cui dicono le sue prese di posizione pubblica.
È questa prerogativa che lo accomuna ad autori come Pasolini con cui sconterà, soprattutto negli ultimi anni di vita, il destino di essere ‘solo’, non assoggettato al Potere, ma in grado di attingere all’«intatta e appagata musica dell’uomo solo», come si legge in Todo modo, dell’individuo cioè capace di valutare le cose nella loro immediata e semplice evidenza, interamente scevra dal pregiudizio ideologico, come il protagonista di Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia, il cui candore non ha solo una valenza etica, ma soprattutto epistemologica.
Una virtù che accomuna un’ampia genealogia di sciasciani confréres letterari: dal professor Laurana di A ciascuno il suo al don Cecè Melisenda del Quarantotto, dall’avvocato Di Blasi del Consiglio d’Egitto all’eretico Diego La Matina di Morte dell’inquisitore o al bargello Matteo Lo Vecchio della Controversia liparitana. Tutti uomini di «tenace concetto», il cui candore divinamente incauto si realizza nella fede nelle proprie idee, nella pervicace resistenza al Potere, indipendentemente dal volto che può assumere, sia esso quello del fascismo, dello stalinismo, dell’Inquisizione o della semplice e metamorfica vischiosità dell’italico trasformismo.

Sarà per questa via che Sciascia potrà rivendicare alla letteratura la capacità di farsi documento del vero, di ergersi come valore superiore in un mondo in cui imperversano sterili disvalori e fallaci utopie, e nella sua ricerca pagò alla fine il prezzo di essere, come Pasolini, un uomo ‘solo’, isolato per le scomode prese di posizione che assunse in tema, per esempio, di terrorismo o antimafia.
Uno scotto necessario, un prezzo che, dirà lui, si dev’essere sempre pronti a pagare, come fu per i suoi più alti modelli d’impegno: il cattolico Georges Bernanos che scrisse contro il franchismo e l’André Gide di Ritorno all’URSS che anticipava di vent’anni quello che avrebbe detto Kruscev. Isolati, ma in un isolamento che, pur pesante, poteva riuscire persino redentorio e che gli faceva dire: «Ecco, a momenti io mi sento preso da questa specie di allegria. Sono criticato da destra e da sinistra. Segno che non servo né la destra né la sinistra».

Rosario Castelli è professore associato di “Letteratura italiana” presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania

Sulla figura e l’opera di Leonardo Sciascia leggi su Ferraraitalia:
Sergio ReyesUN ILLUMINISTA IN SICILIA : Attualità di Leonardo Sciascia a 100 anni dalla nascita [Qui]
Giuseppe TrainaDENTRO IL GIALLO : I personaggi di Sciascia e Simenon davanti al potere [Qui]
Roberta Barbieri
, RICORDANDO SCIASCIA : Una storia semplice [Qui]
Rosalba Galvagno
IL MAESTRO E IL GIOVANE ESORDIENTE : La corrispondenza tra Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo [Qui]
Giuseppe Giglio“Ce ne ricorderemo, di questo pianeta” [Qui]

In copertina:Totò Bonanno: Ritratto di Leonardo Sciascia,1986 (wikimedia commons)

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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