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Se chiedessi in giro di dirmi la materia trattata dall’articolo 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, con ogni probabilità pochi mi saprebbero rispondere.

È l’articolo che sancisce il diritto universale all’istruzione. Fu proclamato nel 1948, senza che si giungesse ad un accordo nel definire cosa fosse, salvo stabilire la sua gratuità dalle elementari alla scuola di base. Ancora oggi, nell’epoca della globalizzazione, manca una condivisione mondiale del significato del diritto all’istruzione. Che è diverso dal diritto allo studio, il quale ne costituisce una componente necessaria ma non sufficiente, e soprattutto non si tratta di un diritto a scadenza, con un inizio e una fine, ma di un diritto che non viene mai meno, da quando vediamo la luce a quando lasciamo la terra.

Forse per qualcuno è ostico pensare al bambino che già al primo vagito ha diritto ad essere istruito. Per fortuna, nel frattempo, con il sistema integrato zero-sei, viviamo in un paese che, almeno nelle intenzioni, si impegna a “garantire educazione e istruzione a tutte le bambine e i bambini, dalla nascita ai sei anni, pari opportunità di sviluppare le proprie potenzialità di relazione, autonomia, creatività e apprendimento per superare disuguaglianze, barriere territoriali, economiche, etniche e culturali” (Decreto legislativo 65 del 2017).

Va bene i neonati, ma pure gli anziani? Se fosse sfuggito a qualcuno, il signor Leo Plass alla veneranda età di 99 anni ha finalmente completato i suoi studi universitari: con la cerimonia di proclamazione dell’11 giugno scorso alla Eastern Oregon University, entrando negli annali come il laureato più vecchio della storia.

Ora da una paese che ha accumulato decenni di ritardi sull’istruzione scolastica, è difficile aspettarsi che sia in grado di occuparsi di istruzione nel senso pieno di diritto universale che attraversa l’intero arco della vita. Ma proprio perché la situazione eccezionale prodotta dal virus ha scoperchiato la pentola della marginalità nella quale fino ad ora è stata tenuta nel paese l’istruzione in tutte le sue forme e in tutti i suoi gradi, è possibile che si ritorni a compiere sempre gli stessi errori, pensando che il diritto all’istruzione sia uguale a scuola e riguardi solo i giovani e non tutta la popolazione di qualsiasi età.

D’altra parte l’immagine dell’Italia, che i dati statistici da anni ci rimandano, è quella di un paese con forti e molteplici attrattive culturali, artistiche, naturali, gastronomiche, ma con poca attenzione all’ambiente, con infrastrutture scarse, poco appealing in termini di sicurezza, salute, istruzione, tolleranza, libertà politica e standard di vita. Un Paese poco appetibile dagli investitori e non particolarmente smart per quanto riguarda la tecnologia evoluta.
Per cui l’impresa di ricostruzione del paese con i fondi Next Generation EU è di quelle che fanno pensare, propriamente o impropriamente, alla difficoltà di risollevarsi da anni di disastri e di ritardi.

Mentre l’istruzione nel paese è rimasta impantanata tra didattica a distanza e didattica digitale integrata, per evitare che la proclamata priorità di istruzione e ricerca sia solo aria fritta, sarebbe opportuno mettere a fuoco alcuni nodi critici.

Il nostro paese è ancora segnato da una diffusa debolezza nell’istruzione e nelle competenze di base, che espongono una parte assai ampia, tanto della popolazione, quanto delle forze di lavoro a un vero e proprio rischio alfabetico che si riproduce anche tra i più giovani (15-29 anni). I sistemi di offerta formativa per gli adulti sono rigidi e non tengono nel dovuto conto la complessità sociale, culturale e professionale della domanda di formazione. Si è generato un “mercato” poco efficace, oligopolistico, auto/referenziale, attento più alla sopravvivenza di chi eroga la formazione, che a decifrare e rispondere ai bisogni e alle richieste dei soggetti che possono essere coinvolti.

Sono rari, quando non del tutto assenti, comunicazioni e scambi di buone pratiche fra operatori ed esperti del sistema scuola, del sistema universitario, della formazione professionale e continua e dell’associazionismo culturale.
Per cercare di sciogliere questi nodi le politiche pubbliche dovrebbero assumere la visione di un sistema formativo integrato che accompagna tutta la vita delle persone, all’interno del quale scuola e università non costituiscono il tutto, ma solo una parte. La bussola di ogni intervento formativo, dai più piccoli ai più grandi, deve puntare il proprio ago a ricollocare al centro di tutto il sistema formativo l’individuo con le sue esperienze, i suoi problemi, le sue aspirazioni ed i suoi interessi.

Il dilettantismo con cui si è affrontata l’emergenza Covid, la evocazione di imprecisate comunità educanti e di evanescenti patti educativi, hanno solo prodotto il rischio davvero grave di un ritorno al centralismo burocratico, a un sistema formativo piramidale, intaccando l’importante conquista dell’autonomia scolastica.

La dimensione locale è indispensabile alle politiche formative per poter aderire alle diversità territoriali e alle specificità sociali. L’organizzazione degli interventi non può essere affidata a un’unica istituzione, ma deve vedere interagire, in modo coordinato, diversi attori pubblici: Stato, Regioni, Enti locali e privati: imprese, terzo settore e individui. Gli stessi che, nonostante i piani di riaperture della scuole, sono mancati all’appello o non si è stati capaci di coinvolgere a causa di un’idea scuola-centrica ancora ingessata nei banchi, nelle classi, negli edifici scolastici; ma, non avendo mai ragionato prima di formazione in senso generale, anziché di scuola, tutto ciò era inevitabile.

Ora gli eventi contro la nostra volontà ci pongono di fronte a un bivio: riprendere la strada più facile del ritorno a prima, o spremerci le meningi per costruire un futuro del tutto nuovo.
Certo si tratta di un impegno che non riguarda solo noi, ma anche l’Europa, questo tuttavia non ci assolve dal compiere il primo passo, perché è in gioco la sfida, se l’uscita sarà verso la next generation o un ritorno alla più sicura e gattopardesca old generation.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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