Skip to main content

Difficilmente si cresce senza innovazione, tanto meno si può sperare in una ripresa economica, quando tutto il resto dell’economia mondiale punta sulla conoscenza e la ricerca. È qui che il serpente si morde la coda, e la coda è quella del nostro paese.
Avremmo dovuto affrontare da subito la crisi investendo in capitale umano, in istruzione e saperi, anziché mettere in ginocchio scuola e università con i tagli lineari. Una miopia ignorante, incapace anche solo di sospettare i vantaggi a medio e lungo termine di simili investimenti.
Alcuni mesi orsono il Presidente del Consiglio ha annunciato che per ogni euro in sicurezza andava speso altrettanto in cultura per difendere l’identità italiana. Qui mi pare che siamo all’emergenza dell’identità italiana sul mercato, se non si decide che l’investimento prioritario e urgente è quello in istruzione e ricerca a partire dalle università, arginando la fuga all’estero non solo dei nostri cervelli migliori, ma anche dei nostri studenti migliori.

Alcune cifre interessanti le fornisce lo studio Ocse 2015 sull’istruzione.
Nel 2013 circa 46.000 studenti italiani risultavano iscritti in strutture d’istruzione terziaria in altri paesi dell’Ocse, mentre altri 3.000 studenti hanno scelto di studiare in paesi non membri dell’Ocse.
Regno Unito, Austria e Francia sono le destinazioni preferite dagli studenti italiani. Il loro numero è in costante crescita. Nel 2007 erano circa 6.000 quelli che studiavano nel Regno Unito, nel 2013 la cifra è salita a 8.000.
Sull’altro versante, le università italiane esercitano uno scarso appeal per gli studenti stranieri. Nel 2013 meno di 16.000 studenti provenienti da altri paesi dell’Ocse risultavano iscritti nelle istituzioni italiane dell’istruzione terziaria, rispetto a circa 46.000 studenti in Francia e 68.000 in Germania. La ragione di questa scarsa attrazione internazionale da parte delle nostre università pare sia costituita dalla barriera linguistica, solo il 20% dei nostri atenei, nell’anno accademico 2013/2014, offriva almeno un programma d’insegnamento in lingua inglese contro il 43%, per esempio, della Germania.

Se ragioniamo poi del rapporto che intercorre tra investimento in capitale umano e ripresa economica del paese, ci sono altri numeri che preoccupano seriamente. Non solo i nostri laureati sono troppo pochi rispetto alla media Ocse, ma guadagnano anche meno, perché abbiamo un mercato del lavoro arretrato, che non domanda capitale umano qualificato, che non necessita di elevate competenze. Il nostro mercato del lavoro è ancora costituito prevalentemente da piccole imprese, anche nei settori dove non bisognerebbe essere piccoli, come per esempio i settori dell’high-tech, della farmaceutica e della chimica. Un mercato del lavoro strutturalmente inadatto a sostenere innovazione e ricerca, che invece sarebbero necessari come l’ossigeno per far fronte alla concorrenza, alla competizione nel mercato mondiale, in particolare nei confronti dei paesi emergenti. Il nanismo dell’impresa pubblica e privata mortifica il capitale umano e non consente di creare le condizioni per uscire dalla crisi, così i nostri giovani, che nutrono speranze e aspettative, se ne vanno all’estero.
Paghiamo le conseguenze di politiche neoliberali che per anni hanno irresponsabilmente predicato meno Stato e più mercato; così ora non abbiamo più né l’uno né l’altro: arretrati nell’istruzione, arretrati nell’impresa, arretrati nei servizi.
Il nostro numero di laureati è simile a quello del Brasile, del Messico e della Turchia. In questi paesi però i laureati hanno redditi, rispetto a quanti hanno conseguito solo un diploma di scuola secondaria superiore, più alti della media Ocse, da noi invece sono inferiori: 143% rispetto alla media Ocse del 160%.
Nel 2014 solo il 62% dei laureati tra 25 e 34 anni era occupato in Italia, 5 punti percentuali in meno rispetto al tasso di occupazione del 2010. Un livello paragonabile a quello della Grecia, il più basso tra i paesi dell’Ocse, la cui media è dell’82%. L’Italia e la Repubblica Ceca sono i soli paesi dell’Ocse dove il tasso di occupazione tra 25 e 34 anni è più basso tra i laureati rispetto alle persone che hanno conseguito, come più alto titolo di studio, un diploma d’istruzione secondaria superiore. Se il mercato resta questo, gli studenti che si iscrivono all’istruzione terziaria avranno da aspettare a lungo prima di avere un ritorno del loro investimento sul mercato del lavoro.

Quest’anno le immatricolazioni alle università hanno fatto intravedere una inversione di tendenza rispetto al costante calo degli ultimi anni, ma non credo sia il caso di trarre facili auspici, perché fintanto che la prospettiva di un ritorno d’investimento, dopo anni di studi, sarà così bassa e incerta, l’interesse dei giovani italiani a iscriversi all’università sarà sempre più limitato.
D’altra parte, se non si investe nell’alta qualificazione, le prospettive economiche per il nostro paese saranno ancora peggiori. Nel 2012 il finanziamento dell’istruzione terziaria era pari allo 0,9% del prodotto interno lordo, rispetto allo 0,8 del 2000. Si tratta della seconda quota più bassa tra i paesi Ocse dopo il Lussemburgo, un livello simile a quello del Brasile e dell’Indonesia.
Prima di ogni altra cosa, prima di altre sparate sulla priorità della cultura, sarà opportuno che l’Italia si allinei in fretta a paesi come Canada, Cile, Corea, Danimarca, Finlandia, Stati Uniti che investono nell’istruzione terziaria oltre il 2% del loro prodotto interno lordo. Ma se il sistema dei servizi e quello produttivo restano arretrati, neppure il Pil potrà crescere. E allora ecco che ancora una volta il serpente si morde la coda.

tag:

Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

Periscopio è  proprietà di un azionariato diffuso e partecipato, garanzia di una gestitone collettiva e democratica del quotidiano. Si finanzia, quindi vive, grazie ai liberi contributi dei suoi lettori amici e sostenitori. Accetta e ospita sponsor ed inserzionisti solo socialmente, eticamente e culturalmente meritevoli.

Nato quasi otto anni fa con il nome Ferraraitalia già con una vocazione glocal, oggi il quotidiano è diventato: Periscopio naviga già in mare aperto, rivolgendosi a un pubblico nazionale e non solo. Non ci dimentichiamo però di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno si fabbrica il giornale. e Ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto. 
Oggi Periscopio ha oltre 320.000 lettori, ma vogliamo crescere e farsi conoscere. Dipenderà da chi lo scrive ma soprattutto da chi lo legge e lo condivide con chi ancora non lo conosce. Per una volta, stare nella stessa barca può essere una avventura affascinante.  Buona navigazione a tutti.

Tutti i contenuti di Periscopio, salvo espressa indicazione, sono free. Possono essere liberamente stampati, diffusi e ripubblicati, indicando fonte, autore e data di pubblicazione su questo quotidiano.

Francesco Monini
direttore responsabile


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it