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Dovunque ti giri le parole hanno smesso di accarezzare, di sussurrare, di abbassare la voce, neppure narrano più. Sono parole informate e informanti, recano pronostici come aruspici. Ti avvertono, ti comunicano. Sono tutte portatrici di messaggi. Non raccontano, non parlano, si intruppano nei messaggi digitati e postati, nelle e-mail sature del nulla. D’altra parte ormai da tempo la parola ‘messaggio‘ è rimasta prigioniera nella bottiglia tra i flutti del mare, cedendo il passo a ‘sms‘, molto più economica, senza tutte quelle vocali e quelle ‘g’ e senza la pretesa di avere un ‘significato’.

Di questi tempi le parole assurte alle grammatiche sono gravate di estraneità come l’estraneità grava sulle conoscenze, sulle parole che con disciplina da sempre si offrono alla loro narrazione.
Pare che il gesto abbia preso il sopravvento con altri segni, simboli e icone, messaggeri di umori e di stati d’animo. Potremmo scrivere romanzi con protagonisti e antagonisti gli emoticon arruolati di volta in volta dai nostri alter ego.
Il problema è che le parole sono leggere quanto pesanti e scendono nei nostri abissi dove agitano fantasmi, edificano gli specchi di quello che noi siamo e di quello che sono gli altri, le parole dette non tornano mai indietro, una volta che hanno vita non cessano di lavorare, di accoppiarsi e di scontrarsi, di costruire piramidi e monumenti di pensiero.
Siamo di continuo responsabili delle parole che diciamo e di quelle che dovremmo dire e non diciamo.
Quando le parole si ritirano c’è il silenzio, e non è un silenzio benigno, perché è il silenzio di chi è rimasto sprovvisto di significati.
Pare che sia questo quello che ci sta accadendo, non ci ritroviamo più nei significati, ci siamo persi nei loro labirinti. I luoghi dell’intersoggettività dove negoziare e condividere i significati sono stati soppiantati dai luoghi dell’ego facebookiano, dell’ego ‘social’ che, al di là di quello che pretenderebbe di significare la parola, più a-sociali di così non se ne sono mai conosciuti prima dell’avvento delle nuove tecnologie. Le parole si usano come le palle delle catapulte, come se tutti fossimo sotto assedio, impegnati a difendere i nostri fortini dalle tastiere dei nostri computer.
Sono i tempi del “sovranismo psichico” ci informa il Censis, siamo arrabbiati e impauriti, finanche incattiviti. Quando manca la parola viene meno anche la ragione. È con la parola che apprendiamo a far uso della ragione. Rabbia, paura, rancore non hanno nulla a che vedere con la ragione. Con la ragione che ascolta il silenzio della parola. Con la ragione che lavora per armonizzare silenzi e parole.

La parola è memoria, la parola è ingresso nella cultura, la parola porta in giro la lanterna accesa dell’intelligenza di ognuno di noi. Ci piacerebbe incontrare la lanterna dell’altro, anziché assistere al lento spegnersi di ogni lanterna che ci sta intorno.
Rispetto, dialogo e ascolto non sono emozioni come paura, rabbia e risentimento, sono azioni che hanno necessità dell’altro. Sono anche belle parole da cui le parole potrebbero ripartire per tornare a parlare, per tornare a narrare, per tornare a condividere i significati, per rompere il silenzio diffidente dell’uno verso l’altro.
Invece di recuperare i nostri campanilismi contro, potremmo iniziare a recuperare il nostro stare insieme per. A partire dalle nostre città. Città del rispetto, del dialogo, dell’ascolto, città dello stare insieme non contro ma per.
Sarebbe bello appendere all’albero del Natale le parole che più ci mancano, quelle che abbiamo sgualcito come ‘fiducia‘ e ‘futuro‘, che andrebbero lustrate, quelle che brillano come le fragili palle colorate di una volta, tipo gentilezza, tenerezza, delicatezza, attenzione, accoglienza, disponibilità, responsabilità. Ma anche le parole che non hanno senso ma suonano bene, che fanno armonia, e quelle delle lingue che non conosciamo che parlano di loro, di incontri e di attese.

A noi con le parole piace giocare, perché quando le parole ti sono amiche e da amico le sai trattare ti riservano sempre belle sorprese.
Come in quella certa enciclopedia cinese, di cui riferisce Borges, nella quale sta scritto che “gli animali si dividono in: a) appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini di latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani in libertà, h) inclusi nella presente classificazione, i) che si agitano follemente, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, l) et cetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano mosche”.
Ecco la parola che libera il pensiero oltre l’impossibilità pura e semplice di pensare tutto questo. Dovremmo sforzarci di far uso delle parole per pensare quello che ancora non abbiamo pensato, iniziando col praticare il motto di Misone, uno dei Sette Savi: indagare le parole a partire dalle cose.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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