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L’intelligenza è quello che ci serve, che serve a tutti noi, per cercare di essere meglio di quello che siamo. Solo chi ha paura di cambiare, di aprirsi al nuovo e alle nuove sfide può temere l’intelligenza, perché l’intelligenza inquieta. Ma ben più inquietante è il prevalere degli irrazionalismi sulla razionalità, pretendere di far assurgere le proprie convinzioni religiose a legge universale, mentre allo stesso tempo l’etica, che dovrebbe guidare le nostre condotte, si fa sempre più fragile e relativa.
C’è uno iato impressionante tra il progresso della scienza e della tecnica e lo stato attuale delle convinzioni umane. Lo stesso disagio si prova a pensare di vivere in un paese nel quale, nel giro di poche ore, può accadere che non riescano a fermare un’Audi gialla che sfreccia in autostrada ai 250 all’ora, che si mobiliti l’antiterrorismo per uno che gira con un’arma giocattolo comprata per il carnevale del figlio e, infine, che si coprano le statue nude alla vista di un capo di Stato, mentre l’opinione pubblica discute se è famiglia ciò che piace o solo ciò che nasce da un uomo e una donna. In tutto ciò a nessuno, però, viene il sospetto che qualcosa non giri per il verso giusto.
Che fine ha fatto l’intelligenza? Chi l’ha calpestata in tutti questi anni, durante i quali sembra che a prevalere non sia stato altro che la gara al furto del denaro pubblico e dei poveracci?
Il rendimento dell’investimento in conoscenza è più alto rispetto a quello di ogni altro investimento, scriveva quasi tre secoli fa nel suo “Almanacco” Benjamin Franklin, aggiungendo che la conoscenza è la radice del progresso umano e sociale, la condizione per lo sviluppo economico. Si vede che noi abbiamo investito davvero ben poco in conoscenza.
Dovremmo dire che come siamo umani oggi non ci piace: se si uccide in nome di un dio, maggiore o minore che sia, se la morte dell’altro non ci induce pietà, perché diverso o distante, se chiudiamo le porte di casa a chi ha bisogno della nostra ospitalità, se prendiamo in ostaggio i poveri beni rimasti a chi ci chiede rifugio. È successo che per difenderci dagli altri abbiamo perso noi stessi.
Il nuovo umanesimo parte di qui. E ci rendiamo subito conto che i suoi ingredienti sono cultura, conoscenza, intelligenza. Pare che il pericolo maggiore sia quello delle idee. Non degli ideali, ma delle idee: i pericoli sono quando “Io credo”, “Io penso” si fanno assoluti. Ci manca il dubbio. Noi abbiamo bisogno di conoscere non per avere certezze, ma per nutrire il dubbio. Solo il dubbio ci rende democratici, aperti, tolleranti e soprattutto continuamente desiderosi di sapere, conoscere, scoprire, ascoltare l’altro. Solo il dubbio ci libera dall’arroganza della certezza e della verità.
Il neo-umanesimo, come tutti gli umanesimi, può essere fertilizzato solo da più conoscenza, da più apprendimento. Ecco perché questi ultimi devono essere diffusi ovunque: perché l’apprendimento continuo è la grande rivoluzione del nostro tempo, non solo in quanto ci è offerto dalle opportunità della rete, delle nuove tecnologie, ma perché ci induce a ripensare le nostre vite e il nostro modo d’essere umani. L’idea di imparare per tutta la vita è antica, è sempre stata una caratteristica essenziale alla sopravvivenza dell’umanità; è profondamente radicata in tutte le culture, ma di fronte ai continui sconvolgimenti sociali, economici e politici non possiamo difenderci, se come cittadini non siamo posti nelle condizioni di acquisire nuove conoscenze, abilità e attitudini che ci aiutino a combattere i nostri pregiudizi, le nostre presunte certezze, l’idea di possedere una cultura superiore a un’altra, una dottrina religiosa più etica di ogni laicità. La nostra cassetta degli attrezzi non può essere la nostra coperta di Linus, necessita di essere costantemente rinnovata o il tempo perduto ci getterà nella cecità delle nostre presunzioni.
Come ieri, ancora oggi un nuovo umanesimo può partire solo dalle nostre città. È nelle nostre città che il nostro essere umani oggi maggiormente si manifesta, nelle città dell’accoglienza, nelle città della solidarietà, nelle città che crescono le nuove generazioni, nelle città che tutelano i loro anziani, nelle città dell’invenzione, della creazione, delle nuove imprese, del lavoro.
Basterebbe prendersi la cura di leggere i documenti dell’Unesco per capire il mondo che siamo e che dovremmo essere. Vi si legge che le città sono i principali motori della crescita economica nel mondo moderno e che l’apprendimento è uno dei combustibili più importanti di questa crescita.
Se condividiamo l’idea che un nuovo umanesimo sia necessario e che questo debba prendere vita dalle nostre città e dal loro governo, allora non possiamo più considerarci soddisfatti solo perché in esse funzionano servizi, infrastrutture ed eventi. No, non è più così, oggi è certo indispensabile, ma non è più sufficiente. Oggi abbiamo bisogno di essere umani con più pensiero, con più intelligenza, perché abbiamo un bisogno di sapere che non si esaurisce. E questo di più di pensiero, di intelligenza, di sapere dobbiamo pretenderlo a partire dalle nostre scuole, dalle nostre università, dalle nostre istituzioni che fanno cultura, da un’idea di città che permetta a tutti di accedere al sapere diffuso in forme e modi nuovi. Perché ciò di cui oggi siamo maggiormente privati sono proprio i tempi e gli spazi del pensare, dell’esercitare l’intelligenza: l’informazione non è conoscenza e la conoscenza spesso non si fa cultura.
Questi sono i nodi che il governo di una città della conoscenza, di una città che apprende oggi deve affrontare, a partire dalla volontà politica non più rinviabile di essere una città della conoscenza.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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