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Il digital self-harm è l’autolesionismo digitale, il cyberbullismo che prevalentemente gli adolescenti praticano nei confronti di se stessi.
Ma questo bisogno di autodistruzione non è nuovo, tutta la nostra esistenza è uno scontro tra Eros e Thanatos, addirittura sacralizzato dalla nostra pratica di aderire ad una confessione religiosa.
Che poi l’odio per noi stessi si sia trasferito dalla sfera privata alla sfera digitale non c’è da meravigliarsi. I pensieri di odio che spesso si rivolgono agli altri in realtà rappresentano le cose che si temono dentro noi stessi. Gli atti di odio sono tentativi di distrarre se stessi da sentimenti come la solitudine, l’impotenza, l’ingiustizia, l’inadeguatezza e la vergogna. Può essere così che noi si divenga una minaccia a noi stessi.
Eros e Thanatos sono i portatori dei loro opposti, l’amore e la morte, la morte e la vita, così l’amore di sé può tradursi nella propria fine, mentre la propria fine nel proprio inizio.
L’intera drammaturgia della nostra vita interiore si riassume nell’essere o non essere dell’Amleto shakespeariano e, del resto, la vita dell’uomo su questa terra inizia con il mito cristiano dell’autodistruzione dell’uomo ad opera del peccato originale nel giardino dell’Eden.
Tutta questa premessa per dire che non sappiamo mai dove andiamo e che non abbiamo motivo di credere né in noi stessi né nella nostra bontà.
Sta di fatto che la presunta solitudine che viviamo innanzi ai nostri laptop disegna in rete con miliardi di like il profilo della nostra fragilità, quella fragilità che chiamiamo privacy, di cui pare che siamo gelosi, ma che ormai abbiamo globalmente resa pubblica, palese a tutto il mondo, lì a dipingere il ritratto dell’umanità che siamo.
I pensieri in rete non hanno bisogno di essere coerenti, è sufficiente che rispondano alle regole del post o del cinguettio, all’hashtag del momento. Sono le parole chiave che guidano i nostri pensieri, non il senso di responsabilità che pare essere ininfluente nel mondo virtuale.
Siamo tutti degli alias dietro ai nostri avatar e nickname che popolano la realtà aumentata, una sorta di autismo collettivo che ha invaso il mondo.
È pericoloso quando a questo autismo di massa pretendiamo di affidare le sorti della nostra democrazia, della storia e della convivenza di una comunità che non sa più guardarsi in faccia, che non è più in presenza, ma sempre assente e distante, che non fa più uso dei freni inibitori del coraggio di guardarsi negli occhi.
C’è un cervello collettivo digitale che sta prendendo lo spazio delle menti riflessive, un digital self-harm di massa, un cyberbullismo collettivo, comunitario, di una comunità interconnessa.
La “socialcrazia” sopravanza la democrazia derubricata tra i reperti dell’era prima di internet.
È l’epoca della socialcrazia, della rete che clicca e che vota, della rete che discute e delibera, dei parlamenti che si svuotano perché le politiche si decidono in rete non dai de-putati, ma dai “digital-putati”. Siamo la Social-Community, il Social-State, con la sua Social-Law e il suo Social-Civil Service.
Se lo shock del futuro era il timore di un’epoca di spersonalizzazione dei rapporti umani, che le nuove tecnologie ci avrebbero portati a perdere il senso di appartenenza alla comunità, allora ecco, il futuro è servito, il futuro è questo presente di grandiose architetture di autolesionismo digitale, di cyberbullismo prodotto dall’uso sconsiderato della rete.
La minaccia che abbiamo di fronte è la fragilità, l’assottigliamento dei vincoli sociali, contro il social autolesionismo, contro il social autismo sono i vincoli sociali con i loro obblighi che vanno recuperati, che hanno urgente necessità di essere ripristinati, di nuove manutenzioni. I social sono solo piazze virtuali che rischiano di annettersi le piazze reali.
Per questo siamo ostinatamente convinti che il nostro sia il tempo delle città. Che le città sono il cuore della nostra salvezza, della nostra democrazia. Che le città sono oggetti delicati, fragili, dove tornare a tutelare e nutrire le relazioni sociali, le virtù degli incontri e delle condivisioni.
Abbiamo bisogno di ritrovare la strada, non solo in senso figurato, soprattutto come luogo fisico, geografico, sociale e materiale. E la strada è nelle nostre città. La città come luogo in cui si ritorna fisicamente dall’esilio digitale per scoprire come è fatto l’altro, l’alias dell’avatar e del nickname in carne ed ossa. La città dove si torna a comunicare con le parole a voce e non scritte, dove lo scambio del dialogo avanza lo scambio dei post, la città dove mettere in piazza i nostri volti per tornare a riconoscerci senza gli hashtag. È il viaggio di ritorno che dobbiamo compiere dal virtuale al sociale.

in copertina illustrazione di Carlo Tassi

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

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Pescando un pesce d’oro
5 titoli evergreen dall’archivio di 50.000 titoli  di Periscopio

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

Periscopio è  proprietà di un azionariato diffuso e partecipato, garanzia di una gestitone collettiva e democratica del quotidiano. Si finanzia, quindi vive, grazie ai liberi contributi dei suoi lettori amici e sostenitori. Accetta e ospita sponsor ed inserzionisti solo socialmente, eticamente e culturalmente meritevoli.

Nato quasi otto anni fa con il nome Ferraraitalia già con una vocazione glocal, oggi il quotidiano è diventato: Periscopio naviga già in mare aperto, rivolgendosi a un pubblico nazionale e non solo. Non ci dimentichiamo però di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno si fabbrica il giornale. e Ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto. 
Oggi Periscopio ha oltre 320.000 lettori, ma vogliamo crescere e farsi conoscere. Dipenderà da chi lo scrive ma soprattutto da chi lo legge e lo condivide con chi ancora non lo conosce. Per una volta, stare nella stessa barca può essere una avventura affascinante.  Buona navigazione a tutti.

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Francesco Monini
direttore responsabile


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