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Per capire quanto le parole possano diventare pericolose di questi tempi, invito a leggere l’ultima opera di Giacomo Papi “Il censimento dei radical chic”.
In realtà non sono le parole ad essere pericolose ma le persone che le cacciano e le censurano, le persone che le usano come proiettili per colpire i loro bersagli. Parole che non sono più pronunciate ma sono sparate da twitter bazooka, da post a mitraglia.
Così è facile varcare il confine che separa il lessico dal territorio della babele, usando i dizionari come zavorra per annegare gli intellettuali, fino alla guerra civile, come fine di ogni civiltà.
Perché le civiltà si sono costruite sulle parole che sono la loro narrazione e, se le togli, viene meno la narrazione, e, se non hai una vita da raccontare, significa che non hai una vita da vivere.
Toccare le parole è come iniettare lentamente un virus mortifero di distruzione.
Bisognerebbe leggere contemporaneamente al libro di Papi, che vuole essere una denuncia, insieme amara e ironica, dei nostri tempi, “Le parole che ci salvano” di Eugenio Borgna.
Le parole come scialuppe delle nostre vite, le parole sempre amiche, mai contro, le parole a cui chiedi soccorso e rifugio. Le parole da cui pretendi che ti consentano di ragionare e di capire. Le parole per stare in armonia anziché sentirsi sempre assediati sugli spalti delle nostre esistenze.
La parola è materia pregiata come il nostro plasma e le nostre cellule. Chi ci toglie le parole ci priva della nostra sostanza, e fare un uso da guerra delle parole è come ferire la nostra essenza, il cuore e il cervello di cui ci siamo dotati.
Se si aggrediscono le regole, i significati e le sintassi le parole non servono più per descrivere, raccontare e raccontarsi. La nostra identità di donne e di uomini non ha più il lessico che le consente di esistere e di rappresentarsi. La parola imbracciata per combattere anziché per esprimere. Una protesi dell’essere umano per delegittimare l’altro e abbatterlo, per andare allo scontro anziché all’incontro, per separare anziché unire. Le parole per agitare le emozioni anziché esporre le ragioni. Le parole come gesto anziché come significato. La parola per usarti anziché per parlarti. Le parole per suscitare angosce anziché speranze.
Dovremmo renderci conto di tutto questo, di cosa stiamo vivendo. Verrebbe voglia di sentire il silenzio, che tutti si accorgessero dell’enorme confusione che sta crescendo, del rumore che pericolosamente stiamo nutrendo dentro.
È che tutti siamo impastati delle parole dell’altro. Senza le parole dell’altro non saremmo mai nati, cresciuti, divenuti quello che noi siamo con le parole che abbiamo ascoltato e portato dentro. Dalle parole di nostra madre e di nostro padre, quelle apprese a scuola e quelle degli adulti che ci hanno fatto da testimoni. Quelle delle poesie, dei romanzi e dei libri di scienze, quelle del cinematografo, delle televisioni e delle canzoni. Che straordinari portatori sani di parole siamo, ciascuno di noi! Non lasciamo che le parole ci possano ingannare e tradire. Rovistiamo tra le parole che ci portiamo dentro, quelle che ci sono più care, quelle che fanno da attaccapanni alla nostra vita, le parole memorie, le parole taciute, le parole che hanno continuato a lavorare nel silenzio accumulato dal tempo.
Non lasciamo la licenza di parola a chi la parola la usa per incantare o per sparare. La parola non ammalia, la parola significa, la parola non esplode, implode dentro di noi con le altre parole che ci portiamo. La parola richiede d’essere profonda e non superficiale, di andare a fondo nelle coscienze e di non restare a galla. Una parola non vale l’altra, una parola non è uno vale uno.
Le parole nascono dalla narrazione delle donne e degli uomini che si sono avvicendati nel tempo. C’è il rischio che a consumarsi, ad essere cancellate siano le parole a cui non seguono i fatti. A tradire non sono mai le parole ma le azioni. Non si possono perseguitare le parole perché le azioni non corrispondono alle promesse e alle aspettative. Perché i fatti non supportano la veridicità delle frasi in cui viaggiano desideri, promesse, pentimenti o intenzioni.
Se ci lasciamo abbagliare dalle parole non è colpa delle parole, ma di chi ne fa uso e delle nostre menti. Dovremmo apprendere a difendere le parole dai sequestratori di significati, dagli affabulatori, funamboli delle proposizioni, dagli equilibristi della logica, dai bulldozer dei territori semantici, impedire che se ne faccia strame da dare in pasto al popolo bue.
La narrazione, il racconto non vengono mai prima, seguono sempre, vengono dopo, le parole dovremmo saperle tenere per il poi, il poi del pensiero come delle azioni.
“Essere di parola” dà valore al significato della parola e al significato d’essere noi stessi. Attribuisce ad entrambi un senso e un valore senza ambiguità. La parola è la persona e identifica la sua umanità. Se la parola si fa inganno e offesa, si fa vuoto orpello, nessuno è più di parola, nessuno più è donna o uomo degno di fede, e questa è la china verso la quale il sequestro delle parole ci sta tutti precipitando e ad essere seriamente a repentaglio è la nostra civiltà.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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