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Cosa ce ne faremmo della nostra cultura, delle nostre tradizioni, della nostra identità se tutto il mondo che ci contiene fosse identico a noi.
L’altro è tale perché non è come me, non è la mia copia, non è il mio doppio.
È la diversità dell’altro da me la condizione necessaria affinché io possa riconoscermi come tale, affinché io sia posto nelle condizioni di scoprire e riconoscere la mia identità. La coscienza individuale e quella sociale si formano nell’incontro con l’altro. L’altro esiste per fornire a me stesso la mia identità.

L’idea della scuola come luogo di apprendimento della cultura come identità nazionale appartiene al secolo degli Stati-Nazione che, in epoca di globalizzazione, con l’ingresso nel nuovo millennio, avremmo dovuto lasciarci alle spalle, lasciare al Novecento insieme a tante altre cose.
Ma la globalizzazione ci spaventa. È lei che ci terrorizza con le dimensioni mondiali che comporta, con lo spazio e il tempo che si dilatano, con le teorie umane che premono alle porte del nostro benessere.
Non abbiamo bisogno di sofisticate ricerche politiche, le ragioni di quanto ci sta accadendo sono tutte qui. Il resto sono sintomi.
Non ce lo vogliamo dire apertamente e allora andiamo alla ricerca di capri espiatori, per illuderci che ci siano alternative. Invece le strade nuove sono tutte da inventare.

La cosa inaccettabile è che la malattia da cui siamo stati colpiti infetti anche le nostre scuole, si trasmetta come un male endemico alle nuove generazioni, le quali, invece, hanno necessità di acquisire gli anticorpi.
La scuola non è il luogo della cultura al singolare, della tradizione e dell’identità nazionale.
La scuola è il luogo, per dirla con Nietzsche, dei “temerari della ricerca”, dove si compie il lungo percorso per diventare se stessi, non come ci vogliono gli altri, né tanto meno gli esegeti della tradizione.
È il luogo dove non ingabbiare le menti, ma dove “forzare le gabbie mentali”.
Non è il luogo della cultura, ma delle culture e della loro narrazione universale.
È un luogo sacro, di liberazione, che non può essere violato dagli untori che oggi brandiscono il crocifisso e il presepe in nome della tradizione e dell’identità di un popolo.

L’inquilino di viale Trastevere e i vari amministratori leghisti da Trento a Trieste, da Arezzo a Pisa risparmino per sé i loro feticci e si vergognino di strumentalizzare luoghi come le scuole, di fronte alle quali dovrebbero tenersi abbondantemente almeno cento passi più indietro, con il loro sciovinismo e la loro xenofobia.
Imparino che crocifisso e presepi non appartengono alla tradizione cristiana, ma a quella della chiesa cattolica, che non a caso si è anche risentita, e che neppure il presepe non è nato come lo conosciamo. Che la nostra identità di popolo è scritta nei centotrentanove articoli della Costituzione e non altrove.
Studino per favore, e soprattutto imparino che la cultura che unisce le donne e gli uomini di tutto il mondo è quella grande narrazione che racconta della continua ricerca di un equilibrio tra il noi e l’altro da noi, tra il sé e il mondo esterno.
Questa è la nostra identità e l’identità che accomuna tutti gli esseri della Terra.
A scuola si impara a stare insieme, come superare le divisioni, non a inalberare vessilli di cattolicità da sbattere in faccia a chi cattolico non è.
A scuola si apprende ad usare gli attrezzi mediante i quali ciascuno possa realizzare sé stesso, essere se stesso, non la copia di un modello pensato da altri, neppure della propria pretesa tradizione.
La scuola non lavora per le greppie e le stalle, per insegnare che un giorno nacque un bambino straordinario ucciso, una volta uomo, in croce. Narrazione di tutto rispetto, ma che riguarda i cattolici, come altre narrazioni appartengono ad altre dottrine.

La scuola pubblica e laica, finanziata con i soldi di tutti, cresce risorse umane, capitale umano, intelligenze, valori che appartengono al mondo perché un giorno saranno neurofisiologi che tentano di decifrare i meccanismi del cervello inaccessibili all’analisi diretta, astronomi che descrivono galassie remote, fisici che studiano particelle invisibili, matematici che esplorano la quarta e la quinta dimensione, e ancora altro che neppure ora siamo in grado di immaginare.
I nostri giovani, ragazze e ragazzi, e il loro futuro questo si attendono, non certo il piccolo mondo antico dei crocifissi e dei presepi di nonna Speranza, trasformati in forza muscolare da esibire contro lo straniero invasore dei nostri spazi e delle nostre menti.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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