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E dunque anche Lorenzo Milani da Barbiana è stato sdoganato. Non più responsabile in primis di una scuola permissiva che produce solo ignoranza, ma alfiere della scuola “aperta e inclusiva”, proprio di quell’eccellenza che l’Ocse ci ha riconosciuto.
Così il 5 giugno scorso don Lorenzo Milani è assurto ufficialmente nel Pantheon pedagogico della scuola italiana con la giornata di studi che il Miur, per la prima volta in cinquant’anni dalla sua scomparsa, gli ha dedicato. Il titolo: ‘Insegnare a tutti’.

A orecchio un Comenio dimezzato, quello che diceva non solo “Insegnare a tutti”, ma “Insegnare tutto a tutti”. Perché forse insegnare a tutti dovrebbe essere pressoché scontato e non avrebbe neppure bisogno di essere ricordato, altro e molto più difficile è insegnare “tutto” a “tutti”.
Una scuola “aperta e inclusiva” non è quella dove si insegna a tutti, un insegnamento non si nega a nessuno, ma quella dove “tutti apprendono”, i Gianni come i Pierino per intenderci.
È quella dove il diritto allo studio si traduce in successo formativo, non, beninteso, come chiave della promozione scolastica, ma come individuale capitalizzazione vera di cultura e di saperi, di autonomia e invenzione, di creatività e indagine. Potremmo dire il risultato di quel “metodo milaniano”, come coniato dalla ministra Fedeli, che a suo giudizio è però “canone irripetibile”.
E allora, se è “canone irripetibile”, perché farci un convegno? Ecco di colpo svelato il vuoto celebrativo della giornata dedicata al priore di Barbiana.
D’altra parte come fa ‘la scuola’ a celebrare una ‘non scuola’, la negazione di sé stessa. Capirete che è un bel disagio sostenere “quel siamo, ma non siamo”!

Sì, perché se vogliamo uscire dal bagaglio delle banalità, quella di don Milani non è una palestra di scuola, ma una palestra di studio, dove ci si aiuta reciprocamente nella fatica dello studiare, non a riuscire a scuola che è un’altra cosa. Una destrutturazione della scuola, una descolarizzazione per strutturare lo studio, quello vero, non quello formale, artefatto, che si fa nelle aule.
Scuola e studiare ci dice l’esperienza di Barbiana sono due cose diverse, l’una addirittura opposta all’altra. Non si studia, sostengono i ragazzi della ‘Lettera ad una Professoressa’, con le cattedre, con i banchi, i voti e i registri. Si fa scuola, la scuola che salva la forma, la scuola ministeriale, la scuola dei programmi e delle circolari, ma non si studia, lo studio è tutta un’altra cosa, lo studio è la vita, quella vera. A scuola si impara quello che si è richiesti di imparare, quelli che ci riescono, ovviamente, ma non si studia, né come studiare né quello che si dovrebbe studiare.
È questo il messaggio di don Milani e dei suoi ragazzi, ancora a cinquant’anni di distanza dalla scomparsa del priore e dall’apparire di un libro che avrebbe segnato per sempre la riflessione pedagogica successiva.
Un messaggio che, al di là della buona volontà della ministra e del Miur, e del fatto che quest’anno a ricordare don Milani ci si è messo pure il papa, con il banale, scontato e populistico “Insegnare a tutti” c’entra ben poco, è uno schizzo d’acqua a fronte della profondità del mare.

Di Lorenzo Milani, uomo, prete, maestro a noi interessa il progetto educativo, un progetto educativo che ha la forza delle grandi invenzioni pedagogiche da Decroly, alla Montessori. Prima di tutto la negazione della scuola come è nella sua organizzazione e nelle sue liturgie, per esaltare la superiorità dello studio. Il percorso e la fatica che ognuno deve compiere per conquistare a sé stesso il sapere, tutti i saperi. Il problema del percorso pone la questione dei terreni da calpestare, quali ambienti attraversare, con quali compagni di viaggio per aiutarsi a vicenda, chi sono le persone sagge da consultare, che ci possono dare una mano, guidare, tenere la regia dei nostri apprendimenti.
Un altro Dna, altro dal Dna della scuola che conosciamo, costituito di classi e di aule. Il Dna è nella stanza di Barbiana, nei locali di quella canonica. Lo stesso che costituiva i geni della rivoluzione che circa quarant’anni prima aveva compiuto a Bar sur Loup il maestro Célestin Freinet con la “nascita di una pedagogia popolare”, via la predella, via la cattedra, la lavagna e i banchi, per lasciare spazio ai tavoli a cui lavorare insieme, alla tipografia, ai laboratori, alla biblioteca di lavoro. Riscoperta della centralità della parola, della lingua come forza emancipatrice dei diseredati, dei figli dei contadini, degli operai, centralità del testo libero, del libro della vita, tanti libri, nessun libro di testo dai saperi preconfezionati.

Milani è il Freinet di Barbiana, come Mario Lodi lo è stato per Vho di Piadena e Bruno Ciari a Certaldo. È la pedagogia degli oppressi, l’educazione come pratica di libertà, vissuta e scritta tra i poveri e gli analfabeti da Paulo Freire. Si tratta di sensibilità che hanno plasmato figure di educatori, di maestri che costituiscono un riferimento, che ci aiutano a riflettere ogni giorno cosa non è la nostra scuola, quanto ancora sia distante per sensibilità e cultura dalla lezione che loro ci hanno lasciato.
Anziché celebrare dovremmo ragionare di come aggiornare quei modelli educativi, quegli ambienti di apprendimento, di cui nella didattica di ogni giorno nelle nostre scuole ancora di classi e di aule, di registri, interrogazioni e voti non si scorgono che rare tracce, ed è veramente farisaico appendere il santino di don Milani dietro “l’insegnare a tutti”, quando la nostra scuola è la scuola dell’ossimoro che insieme al primato dell’inclusione vanta il primato della dispersione.
La scuola, dunque, rimane il problema anziché la soluzione.
Celebrare don Milani è porre al centro lo studio, il problema dello studio come diritto, così come si ha diritto a respirare e a vivere. Questa scuola è ancora, se lo è mai stato, il mezzo per servire la centralità che lo studio ha per l’intera vita di ogni individuo, dalla nascita alla morte?
Come si impara, come si apprende, come si studia? Non a scuola, ma nella vita. È quello che si sono chiesti don Milani e i suoi ragazzi di Barbiana. E la risposta è l’esperienza di Barbiana dove non si apprende per materie, ma per idee, per curiosità, argomenti e narrazioni, un esempio di come controllare i propri percorsi di apprendimento, contenuti, ritmi e condizioni, come decondizionarsi dall’essere ricettacoli passivi dell’istruzione. Sostanzialmente di come guarire dal mal di scuola.
Questa è la “comunità educativa” alla base di Barbiana, forse alla base della scuola moderna, come ha detto il Presidente della Repubblica, ma non certo alla base della nostra scuola, perché dovrebbe negare la scuola stessa così com’è, così come la conosciamo.
Ma questo non significa negare la centralità dello studio, semmai la pretesa di voler esautorare ogni forma di studio che non sia la scuola. Una battaglia che con l’avvento di internet la scuola e le accademie hanno perso, perché il sapere è fuggito dalle loro gabbie, dai loro labirinti, così come il sapere dei ragazzi di Barbiana è fuggito dalle aule e dalle classi della professoressa a cui decidono di scrivere.
Il messaggio ancora attuale che viene da don Milani e dai suoi ragazzi è che la scuola ha bisogno di Barbiana, ha bisogno dell’altro, ha bisogno di territorio e del territorio, ha bisogno di farsi rete con le persone e con le vite delle persone, con i luoghi, con le risorse, ha bisogno di schiudere le classi e le aule e di aprire spazi di apprendimento dinamici, di coniugare internet e Barbiana, di insegnanti registi e non attori, di insegnanti comprimari, di insegnanti preparatissimi, capaci di mettersi non in cattedra ma a disposizione, capaci di sensibilità e del dono gratuito dell’insegnamento.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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