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Per il Ministero dell’Istruzione sono Cni, cittadini non italiani, per i sociologi sono G2, seconda generazione e poi ci sono i Nai, i neoarrivati in Italia.
Sono le compagne e i compagni di scuola dei nostri figli che, a prescindere che siano nati qui da noi, siano appena giunti, o siano qui ormai da alcuni anni, sono degli stranieri.
Estranei, forestieri, senza alcuna relazione di patria con noi e i nostri figli.
Eppure frequentano e studiano nelle nostre scuole che per dettato legislativo formano i cittadini italiani.
Loro, “gli stranieri”, ne resteranno formati, ma non saranno italiani.
Non perché la scuola e gli inseganti abbiano fallito, ma perché a fallire è la politica che si muove con disinvoltura contro le leggi stesse dello Stato e la sua Costituzione. Cittadini a pieno diritto per una cittadinanza che non potranno praticare.
Saremo pure il paese dell’integrazione, ma ben lontani dall’essere un paese inclusivo.
Integrazione e inclusione forse si possono somigliare, ma non sono la stessa cosa.
Integrazione è una parola praticamente collegata ovunque all’immigrazione, si accompagna all’intercultura. Parole che oramai sono divenute familiari al nostro lessico, ma non alla nostra civiltà.
È più facile incorporare nella società senza discriminazioni razziali che includere.
Includere è inglobare, non è solo aggiungere. Giocando con gli insiemi, l’integrazione è un insieme con un sottoinsieme, l’inclusione non ha sottoinsiemi.
Per intenderci l’integrazione è la popolazione con un sottoinsieme: la parte di popolazione che non è italiana. L’inclusione: tutta la popolazione in quanto tale è italiana.
Per l’Ocse la nostra scuola è la più inclusiva d’Europa. L’Ocse però si sbaglia, perché la nostra scuola non è e non sarà mai inclusiva se ai figli degli immigrati che in Italia hanno completato un ciclo di studi continueremo a negare lo ius culturae.
Sarà anche la scuola dell’integrazione, ma non certo dell’inclusione, perché l’insieme degli alunni avrà sempre un sottoinsieme, quello degli alunni Cni o G2.
Bambine e bambini, ragazze e ragazzi educati per un cittadinanza che non gli sarà data, incamminati verso porte che troveranno chiuse.
Per questi giovani a cui è negato d’essere italiani la promessa della scuola è un inganno. La scuola, che per compito istituzionale ha quello di fornire a ciascuno gli strumenti della cittadinanza attiva, per loro non è uguale a quella delle compagne e dei compagni che insieme a loro crescono, violando in questo modo il principio dell’uguaglianza formale e sostanziale dettato dall’articolo 3 della Costituzione.
A loro viene negato il diritto di essere sovrani di se stessi, perché chi non è cittadino non è neppure sovrano di sé.
Un paese e un popolo che li tradisce dopo averli allevati nell’identità di una lingua con la quale hanno appreso a pensare, a dialogare, a studiare.
Un paese che ha aperto loro l’immaginario e l’orizzonte della sua tradizione, della sua storia, dell’arte, della poesia, della letteratura, che li ha coinvolti nel suo futuro.
Gli ha fornito la parola con la quale dominare sulle cose, dando ad esse un senso, un significato, ponendoli nelle condizioni di narrarle e d’essere parte di questa narrazione. Ma datagli la parola ora gliela toglie negandogli l’identità, impedendogli di riconoscersi come cittadini di questa nazione. Tante infanzie e adolescenze di confine, senza terra, neppure quella di mezzo.
Lo Ius culturae altro non è che un atto dovuto. La legge non deve che ratificare quanto già solennemente sancito dai documenti più impegnativi per un paese come sono quelli in cui si dichiarano i principi, le finalità e gli obiettivi che stanno a fondamento della formazione e della crescita delle giovani generazioni. Tradire quei principi vuol dire violare il patto di lealtà e di fiducia sancito con il popolo, significa mancare al contratto sociale.
Chi viene meno a questa responsabilità non è degno di sedere nelle istituzioni più alte della Repubblica. Ricordiamocelo quando torneremo a votare.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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Francesco Monini
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