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Sembra di essere ritornati ai tempi andati quando a risolvere le questioni bastava un po’ di buon senso. A rivalutare il “buon senso” ci ha pensato il Miur con un progetto in collaborazione con la casa editrice Laterza, la Rai e l’Istat. Non si può che salutare positivamente l’intenzione di educare i nostri studenti, anche se di soli nove istituti superiori su tutto il territorio nazionale e in via sperimentale, all’uso del buon senso, uno di quegli attrezzi che sembrano dimenticati, la cui frequentazione non nuocerebbe neppure agli adulti.
Perché il buon senso? La ministra Fedeli dichiara che così si educano le nuove generazioni, fornendo loro strumenti e conoscenze, a interpretare e a comprendere i fenomeni e le questioni che interessano la società in cui viviamo. Un modo per attrezzare i giovani e fornire loro gli anticorpi contro le fake news della rete, ponendoli nella condizione di sviluppare capacità logiche e dialettiche confrontandosi su posizioni diverse, fino a realizzare, al termine del percorso, un prodotto che potrà essere un saggio breve, un reportage, un dibattito, un video o uno spettacolo teatrale. Al progetto parteciperanno numerosi partner qualificati: testate e reti televisive, giornali, web media, teatri, associazioni, scuole professionali, istituti di ricerca e fondazioni culturali.
Il progetto suggerisce alcuni interrogativi. Innanzitutto perché intestarlo al “buon senso”. Pareva che fino ad ora la scuola fosse impegnata a fornire competenze, anche se su quest’ultime regna ancora un po’ di confusione, rispetto alle nozioni e alle conoscenze, che quelle sono chiare, sono scritte nei libri di testo e nei programmi, ma il buon senso è davvero una novità, forse perché uno lo dà per scontato, come l’attenzione, il ragionamento e quegli altri ingredienti del fare e dello stare a scuola.
“Buonsenso” il dizionario nota che è la capacità naturale dell’individuo di valutare e distinguere il logico dall’illogico, l’opportuno dall’inopportuno, e di comportarsi in modo giusto, saggio ed equilibrato, in funzione di risultati pratici da conseguire.
Così naturale poi non deve esserlo se è necessario sperimentare l’educazione al buon senso nelle nostre scuole per carenza tra i nostri giovani di un sano, pragmatico buon senso, che evidentemente non può mancare ai tanti soggetti che sono stati chiamati all’appello da questo progetto.
Il buon senso, dunque, se anche innato, va imparato, ne va appreso l’uso, chiama in causa la capacità di pensare e la capacità di giudizio. Torna alla mente l’Etica nicomachea di Arsistotele, la terza virtù chiamata appunto “buon senso” (gnòme), che consiste nel giudicare rettamente.
Aristotele direbbe che il progetto del Miur punta a formare individui “benevoli” (eugnomones), vale a dire che giudicano rettamente e sono dotati di buon senso, cioè sono in grado di formulare un giudizio retto ed equo, virtù alla quale, secondo Aristotele, diamo il nome di comprensione.
Buon senso quindi uguale a comprensione, procurandosi gli strumenti per comprendere la realtà che sono sempre gli stessi: conoscenza, ricerca, confronto dei dati.
Ma quello di formare al giudizio retto ed equo non dovrebbe essere compito di tutta l’istruzione dalla scuola dell’infanzia alle superiori? Cosa si fa a scuola che non sia questo? Perché solo gli studenti di nove istituti dovrebbero essere formati al buon senso e gli altri no? Si sono accorti al Miur della contraddizione?
La scuola di tutti e per tutti quale deve essere? Quella del progetto “Buon senso” o l’altra?
Indubbiamente quella del “Buon senso”. E allora l’altra, quella ben più ampia che non è coinvolta, è una scuola che non è, è una scuola che lavora per obiettivi che non servono ai giovani per comprendere il mondo in cui vivono, per difendersi dalle bufale, per comprendere la complessità del tempo e della società che abitano?
Un’idea buona rischia di denunciare una scuola cattiva. O piuttosto la verità è che siamo in ritardo, che si è compresa la strada del cambiamento che dovrebbe essere intrapresa da tutto il nostro sistema formativo, ma che si è ancora impotenti a dare corpo, idee, e organizzazione a questo cambiamento. Si tentano timidi episodi qua e là senza riuscire ad andare a sistema, perché la nostra scuola è anche un corpo molle che resiste al cambiamento.
Se il cuore del sistema formativo di una nazione è quello di formare i propri giovani al “buon senso”, nell’interpretazione aristotelica, uscire dal sistema formativo forniti degli strumenti che consentono di interpretare la realtà in maniera retta ed equa, allora è con questo sguardo che dobbiamo ripercorrere tutta l’organizzazione del nostro sistema scolastico, dalla formazione dei suoi docenti fino agli esiti dei suoi studenti.
Per di più il progetto “Buon senso” del Miur ci suggerisce che questo è un obiettivo che la nostra scuola non ce la fa a perseguirlo da sola. La pluralità di soggetti che si è dichiarata disposta ad aiutarla induce inevitabilmente un’altra riflessione, e cioè che il nostro sistema formativo, di fronte alle nuove sfide, di fronte ai nuovi obiettivi non è più autosufficiente, non è più in grado di fare da sé.
È giunto il tempo che non si può più fare scuola solo nelle aule, non si può più fare scuola solo con gli insegnanti, ma ormai sono chiamati all’appello il territorio e i suoi soggetti. L’idea che fare scuola è cosa larga chiama in gioco chi ogni giorno sperimenta e lavora, chi ha esperienza in ciò che si discute e si ricerca sui banchi di scuola. Questo dialogo, questo travasare i contributi di chi è esperto, di chi può fornire risorse e conoscenze ai percorsi di apprendimento degli studenti deve divenire il modo normale di apprendere in un sistema formativo dinamico, che dalla scuola esce per muoversi sul territorio e che dal territorio ritorna alla scuola per ritracciare le mappe della conoscenza.

in copertina elaborazione grafica di Carlo Tassi

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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