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Che piaccia o no la rivoluzione è in corso. Di quelle silenziose, che non amano né farsi sentire né farsi vedere, perché più sono carsiche, meglio raggiungono lo scopo. La rivoluzione è digitale, non analogica come avrebbe potuto farci sospettare la conoscenza che abbiamo della storia. Se sapere è potere, se conoscere è volontà, le tecnologie dell’informazione ci consentono di abitare la conoscenza non più da sudditi ma da cittadini a pieno titolo.
Internet ha ribaltato la piramide della conoscenza, quella tradizionalmente elargita dall’alto verso il basso, ha reso democratica la fruizione dei saperi affrancandoci dai nostri rapporti di dipendenza nei confronti delle istituzioni culturali, dei loro monopoli, dei loro gestori e distributori. Non è più il tempo dei burattinai della cultura che tirano i fili dall’alto dei loro scranni. Essere cittadini della conoscenza significa abbattere tempi, limiti e confini, condividere dati e informazioni con i propri simili nel resto del mondo.
Finalmente possiamo dire “la cultura è mia e me la gestisco io”. Ma non è così facile, perché c’è sempre chi pensa al “management” della conoscenza non in funzione degli individui, del loro essere-bene, della loro felicità ma ad esclusivo beneficio dell’economia e dei suoi mercati. E poi, c’è sempre in agguato dietro l’angolo chi nutre il terrore delle idee quando sono lasciate libere a se stesse.
Saremmo in grado di ripensare il mondo, ma ogni giorno ne siamo ostacolati, perché costantemente minacciati nella nostra sussistenza quotidiana. Così democrazia e libertà sono permanentemente in ostaggio dell’immenso potere economico di multinazionali, banche e tecnocrati che conducono il gioco, imponendo i propri dogmi agli Stati.
È tempo di essere cittadini, dell’etica della cittadinanza che comporta diritti e doveri. Essere cittadini, ma non spettatori. Qui si pone il tema del ruolo della città e come questo debba mutare. Alle nostre città non è più richiesto solo il compito di aiutarci, di tutelare la nostra libertà, di proteggerci, ma anche quello di metterci nelle condizioni di essere protagonisti, di contribuire a renderle città intelligenti, creative, città che apprendono, città di abitazione vera e di vita autentica. La principale ragione per cui esistono le città risiede appunto nella forza che scaturisce dalla collaborazione tra gli individui. Non è più tempo di governare da soli, non vogliamo essere cittadini in ‘parcheggio permanente’. I luoghi di partecipazione non ci sono più, ma la città è nostra, non del sindaco o di qualche congerie di partito, di lista o di movimento.
Il concetto di città che apprende evidenzia la partecipazione di tutti gli agenti della città, il contributo e la collaborazione di tutti, un senso condiviso e agito dello scopo d’essere città insieme. Ciò che un’idea di città abitata in quartieri ha diviso, oggi deve ritrovare la propria unitarietà e ricomposizione nell’idea di città della conoscenza, di città che apprende, di città educativa. Non c’è forse questo bisogno, semmai inespresso, non del tutto ancora consapevole, nel fenomeno delle social street che un po’ ovunque si sta facendo strada? Non evidenziano forse queste iniziative un bisogno di apprendimento continuo a partire dalle esigenze dei cittadini? Sono esperienze che sottolineano l’importanza e l’uso virtuoso dell’accesso alle nuove tecnologie della comunicazione per tutti, come strumenti per acquisire la conoscenza, facilitare l’interazione e l’innovazione.
Ma in tutto questo è il quadro politico ad avvilire la città e i suoi cittadini. La corsa al governo della città nell’interesse di una parte contro l’altra, senza un’idea di città e di cittadinanza che sia dalla parte dei cittadini, del loro ruolo, della loro vita nella città che solo a loro appartiene.
Le città devono ancora apprendere ad essere città e i cittadini ad essere cittadini. Una caratteristica importante delle città che apprendono è una efficace collaborazione tra le parti, a iniziare dai partiti politici locali, dalle istituzioni dello Stato, dai luoghi di apprendimento, dalle università alle scuole, dalle imprese alle aziende. La creazione di comitati e di luoghi in cui tutte le parti sociali siano rappresentate, in cui si concordino le questioni da affrontare e le azioni da realizzare nell’interesse e a beneficio dell’intera comunità locale. Ma se non ci si sente cittadini con gli altri, in solidarietà e partecipazione c’è la frattura, da un lato l’amministrazione, dall’altro il cittadino fai da te, delle ronde, degli egoismi, delle discriminazioni. La città creativa, la cultura della cittadinanza richiedono per tutti nuove competenze che si apprendono insieme a partire dalla responsabilità verso i nostri diritti e doveri di cittadini, a partire da una città che innanzitutto si mette a disposizione di chi la abita.
L’attuale società fondata sulla conoscenza diffusa produce una nuova domanda di valori e di opportunità. Le persone richiedono di acquisire nuove competenze per essere cittadini attivi che non è parola vuota, ma significa porre ognuno nelle condizioni di svolgere un proprio ruolo nella costruzione della città che si abita come ambiente della propria vita. Questo oggi dovrebbe essere il compito di chi è chiamato ad amministrare una città, una città che apprende innanzitutto dal suo capitale umano, di giovani e adulti, che apprende a partire dal promuovere lo sviluppo dei potenziali individuali, dall’interazione con gli altri e con l’ambiente, dalle dinamiche di scambio che si istituiscono tra le persone, perché la città reale è fatta di carne e non di calcestruzzo.
In questo senso la città della conoscenza e concetti simili acquisiscono importanza per la formazione del capitale culturale di ogni cittadino. È quindi essenziale lavorare ogni giorno per intessere l’alleanza tra la città della conoscenza e i suoi cittadini. Città della conoscenza e competenze del cittadino richiedono di essere costantemente associate, perché strettamente intrecciate, non disgiungibili, al centro ci stanno l’apprendimento della città, la creatività della città, l’intelligenza della città. Altri discorsi non servono al nostro benessere, al rispetto reciproco, all’accettazione della diversità, alla collaborazione, all’intreccio e allo sviluppo di relazioni significative per i cittadini e per la città.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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