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Ai giovani non resta che prendere la vita con filosofia, visto che non siamo in grado di offrirgli un futuro. A questo intende provvedere il ministro dell’istruzione introducendo l’insegnamento della filosofia negli istituti tecnici e professionali. La divisione di classe gentiliana perpetuata dal nostro sistema formativo fino ai giorni nostri, passa anche attraverso questa discriminazione.
La riflessione filosofica come modalità specifica e fondamentale della ragione umana”, così sta scritto nelle Indicazioni nazionali per i licei, evidentemente non era considerata necessaria a chi è destinato a ruoli subalterni nel mercato del lavoro. Pare che fior fiore di manager da Sergio Marchionne a Rupert Murdoch siano laureati in filosofia.
Ma l’introduzione della filosofia nel curricolo di tecnici e professionali non nasce per fare giustizia di un anacronistico sistema ancora articolato nella luce degli otia studiorum e le oscurità dell’avviamento al lavoro.
Nel 1970 “Fortune 500”, la rivista che pubblica la lista delle maggiori imprese a livello mondiale, citava lettura, scrittura e aritmetica come abilità richieste dal mercato del lavoro, soppiantate nell’edizione del 1999 dal lavoro di squadra, risoluzione di problemi e abilità interpersonali.
Il mercato del lavoro ha bisogno di scuole in grado di sviluppare queste competenze e allora, a vent’anni di distanza, il ministero dell’istruzione scopre che la filosofia, se fatta bene, è un potente strumento per imparare a ragionare, a pensare con la propria testa, a non essere dei semplici esecutori, e, quindi, ne decreta l’ingresso tra le discipline degli istituti tecnici e professionali.
Ben venga, anche se avremmo preferito che le ragioni fossero più nobili e che si smettesse con questo vizio tutto italico di procedere per toppe e aggiustamenti senza mai avere una visione organica, di insieme del sistema formativo. Anche perché gli interventi che si stanno mettendo in campo, dalla riduzione del curricolo delle superiori a quattro anni, alla riforma dell’esame di stato, elemento quest’ultimo a cui in Francia Macron intende legare il nome del proprio governo, fino all’ultima decisione di estendere l’insegnamento della filosofia, sono interventi destinati ad incidere in profondità sul sistema di istruzione del nostro paese.
Viene naturale chiedersi, a questo punto, che senso abbia continuare a mantenere in piedi un sistema formativo ancora distinto in licei, istituti tecnici e professionali, quando, tra l’altro, per attirare più studenti, i licei tendono a tecnicizzarsi e gli istituti tecnici a liceizzarsi.
Un modello di istruzione pubblica fondamentalmente ancora radicato nella rivoluzione industriale che lo ha generato, quando il mercato del lavoro apprezzava puntualità, regolarità, attenzione e silenzio sopra ogni altra cosa, non certo autonomia, capacità di iniziativa e di risolvere in modo creativo i problemi.
Quello delle nostre scuole è ancora un sistema da catena di montaggio, dove gli studenti sono trattati come materiali da elaborare, programmare e testare.
Il modo in cui si apprende nelle nostre scuole non è quello per cui siamo stati progettati, la selezione naturale ci ha progettati per risolvere i problemi e capire le cose che fanno parte della nostra vita reale.
Ciò che conta è la formazione del pensiero, l’abitudine ad usare la mente fin da subito, essere padroni del ragionamento, apprendere a formulare le domande che nutrono la curiosità.
Insegnare a pensare è l’arte maieutica, senza voler scomodare Socrate, per cui viene spontanea una seconda domanda.
Se l’insegnamento della filosofia è così importante per formare al pensiero libero anziché condizionato dagli standard scolastici, perché non iniziarlo prima, quando la mente è più reattiva?
Nel Regno Unito e in Irlanda è in aumento il numero delle scuole che sperimentano con successo l’introduzione della filosofia già nella scuola elementare: aiuta a sviluppare le abilità matematiche e di alfabetizzazione, anche negli studenti più svantaggiati. E così i dicasteri dell’istruzione d’Oltremanica hanno rimesso in discussione il dogma che annovera la filosofia tra le materie specialistiche, destinate ai ragazzi più grandi.
Da noi non mancano esperienze importanti come quella raccontata in “I bambini pensano grande” dal loro maestro Franco Lorenzoni e quelle di alcune scuole romane che hanno portato la filosofia tra i banchi delle elementari.
Sull’incontro tra la filosofia e gli adolescenti esiste un’ampia letteratura da “Il mondo di Sofia” di Jostein Gaarder a “Etica per un figlio” di Fernando Savater.
Altra cosa è portare la filosofia dal liceo alle elementari. La sfida vera è questa.
Del resto sarebbe sufficiente interrogarsi sul perché a un certo momento della sua vita Wittgenstein decide di andare a insegnare alle elementari. Forse sentiva il bisogno di confrontarsi proprio là dove i modi di pensare prendono forma.
Insegnare a pensare con la propria testa. Di questi tempi, nulla sembra più rivoluzionario.
Sarà davvero un nuovo giorno quando chiedendo a un bimbo delle elementari cosa ha appreso a scuola egli risponderà: “In classe ho imparato a pensare”.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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