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Il terremoto pare essere la metafora del tempo che viviamo, si sbriciolano le città con i loro patrimoni d’arte, con una storia che finisce in calcinacci. Non c’è solo il dolore per il dramma che colpisce i luoghi e le persone, c’è un disagio profondo a vivere questo presente frutto di un passato irresponsabile e corrotto.
È un disagio intelligente, razionale, un disagio mentale, perché quella che si è sbriciolata con il terremoto è la nostra idea di polis, di cittadinanza.
Non c’è uno spazio mentale comune in cui inscrivere tutto ciò che sta accadendo, non c’è uno spazio progettuale condiviso. La logica è quella delle contrapposizioni, terremotati contro migranti, prima noi poi loro, prima il nord del sud, sì, no. La complessità, le sfumature, sono troppo difficili da abitare.
Cittadinanze anguste le nostre, polis che si sfaldano e con esse la democrazia, il pensiero. Non sappiamo dove andare e non sappiamo come abitare i nostri territori, perché la polis mentale diffusa, nella polis sociale coglie solo minacce, dalla polis sociale tende solo a rifuggire.
La diversità prevale sulla normalità, nulla è più il continuo fluire della vita, tutto è interruzione, frattura, rottura di un equilibrio, perché non corrisponde alle idee personali che abbiamo di normalità.
Abbiamo necessità di ricostruire una cultura della polis, dello stare insieme, dell’essere comunità, una cultura della solidarietà e del rispetto delle differenze. Ma prima della polis sociale occorre recuperare la polis mentale dove le differenze reciproche possano essere contenute, comprese, elaborate. Poiché soltanto se conosciuti, compresi ed elaborati, il nuovo, l’ignoto, il diverso perdono la loro carica di oscura minaccia e angoscia, divenendo stimoli al confronto, alla conoscenza, alla crescita.
La chiave di tutto è la conoscenza, il conoscersi, fare delle nostre città luoghi di relazione, di interscambio, di dialogo, di rete, di conoscenza partecipata, diffusa, scambiata nell’incontro e nella condivisione. Non si tratta di educare alla cittadinanza, ma di praticare tutti una nuova cittadinanza, non la cittadinanza per differenze ma la cittadinanza per uguaglianze, per incontri, per riconoscimenti.
Pare che le nostre identità siano tali solo perché non siamo come gli altri e questo continuare a definirsi per negazione ci isola in noi stessi. Ciò di cui manchiamo è proprio la cultura dell’altro, non abbiamo competenza nella cultura dell’altro. Una competenza che si può tentare di acquisire soltanto abbandonando il nostro esserci per differenza, abbandonando gli attaccamenti alle nostre certezze, per transitare verso la cultura della competenza dell’altro. Che è cultura di responsabilità nei confronti di chiunque è altro da me, che è cultura di riconoscimento, di ragionamento e di ascolto, cultura che ricerca, insieme e non contro, la soluzione ai problemi. Dovremmo uscire un poco da noi stessi, abitare più la cittadinanza che la nostra arroganza, ricollocarci al centro della polis non da soli ma con gli altri, rinnovare il patto di alleanza, la disponibilità non solo ad abitare lo stesso territorio ma a camminare per il territorio insieme.
Può darsi che rinascita e neoumanesimo siano parole grosse, ma quali altre parole dovremmo usare per indicare ciò di cui abbiamo bisogno.
Sono le città i luoghi dove oggi si può iniziare a confezionare le risposte alle sfide che ci prepara il futuro, come luoghi per reinventarsi collettivamente gli spazi vitali della polis mentale, le città come luoghi di riconciliazione e rinascita della polis sociale.
Ma occorre che la polis mentale muti le sue categorie, abbatta le mura della cittadella medievale, dei suoi arroccamenti per misurarsi con cosa significa vivere in un mondo complesso, in rapida evoluzione, in continuo movimento, in cui le norme sociali, economiche e politiche sono costantemente ridefinite. La crescita economica e l’occupazione, l’urbanizzazione, il cambiamento demografico, i progressi scientifici e tecnologici, la diversità culturale e la necessità di mantenere la sicurezza umana e la sicurezza pubblica rappresentano solo alcune delle sfide per la governance e la sostenibilità della società.
Con tutto ciò la polis sociale e la polis mentale oggi si devono misurare, prendendo atto che le vecchie categorie di ieri sono ormai arnesi arrugginiti da gettare. Abbiamo bisogno di imparare nuovamente ad imparare, di apprendere come si fa ad apprendere il nuovo, non di alzare le barriere, perché prima o poi queste barriere ci si rovesceranno addosso.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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