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Spesso i lapsus freudiani tradiscono quei pensieri che ci proponiamo di tenere celati agli altri, con una sorta di censura più che morale, perbenistica.
È il caso dell’appello rivolto alla nostra amministrazione comunale da un gruppo di mamme che chiedono maggiore cura e decoro per l’anello di piazza Ariostea, in modo che sia, c’è scritto nella loro petizione, “un’area pulita e sicura di sgambamento bimbi”. Sì, “sgambamento”, come quello delle aree riservate ai cani o dei cavalli che in quell’anello corrono il palio.
Me li vedo questi bambini costretti a vivere sacrificati in angusti appartamenti condominiali e le loro mamme che spazientite cedono con un: “Uffa! Non rompere! Ora ti porto a sgambare.” Sgambare, anziché giocare, cinque giri di corsa dell’anello di piazza Ariostea, e poi a casa.
Tra le categorie che la nostra società dovrebbe culturalmente rivedere ci sono proprio l’infanzia, i bambini e l’adolescenza. Rivedere a partire dal significato etimologico di queste parole, rivelatore, nonostante tutte le nostre dichiarazioni e le nostre petizioni di principio, di una cultura dura a morire. Infante è colui che non sa parlare, bambino deriva da “bambo”, come bambola, cosa sciocca, infine adolescente, colui che non è adulto. Noi definiamo un ampio arco della nostra esistenza, dalla nascita alla maggiore età, per “assenza”, per “mancanza di”, potremo dire come ‘minorazione’ o ‘menomazione’. Adulti e anziani hanno un valore in sé, non è così per l’infanzia e l’adolescenza, che divengono età di sottomissione, di dipendenza e di tutela. Per cui l’infanzia è tempo di spensieratezza e trastulli, e l’adolescenza tempo di crisi e conflitti.
Non è che la maggiore cura che abbiamo per i nostri figli, l’investimento affettivo che su loro facciamo o la scelta consapevole d’essere genitori mutino i termini della questione.
Cosa c’è allora che non va? Una possibile chiave di lettura credo consista nell’ideologia dell’infanzia e dell’adolescenza scritta da anni di teorie e di ricerche. Separando drasticamente le fasi della vita degli esseri umani abbiamo finito per ghettizzarne le caratteristiche a scapito della capacità di valorizzarne le peculiarità. Con la conseguenza di rendere inconfutabile, persuasiva e pervasiva la dominazione dell’adulto su chi è considerato come meno e non come più, secondo concetti di “piccolo” e “grande” del tutto opinabili, basti pensare a quanti minori nel mondo sono ancora costretti a compiere lavori ed assumersi responsabilità da “grandi”, per i quali “infanzia” e “adolescenza” sono solo categorie del pensiero borghese occidentale. Per tacere delle tante patologie, specialmente comportamentali, che le varie scienze psichiche e mediche, insieme alle teorie sociali e pedagogiche, oggi attribuiscono all’infanzia e alla adolescenza.
Ritenere che siano patologie è un punto di vista adultocentrico, è patologico ciò che non rientra nei nostri modelli, nelle nostre aspettative, nella norma che tutto conforma. Ma disagio, rifiuto, contrasto, ribellione, per quali motivi dovrebbero avere ragioni diverse da quelle che portano gli adulti agli stessi comportamenti? Anche per i bambini e gli adolescenti la rottura è sempre contro qualcosa, solo che il nostro adultismo, al quale secondo noi deve aspirare chi cresce, ci impedisce di vedere che appunto si tratta di forme di resistenza, da parte di chi indubbiamente è più debole e non ha ancora elaborato gli strumenti per difendersi, all’imperante potere adulto e ai suoi modelli di riferimento.
Capisco che collocarsi in questa prospettiva è dirompente, perché sconvolge l’intero impianto delle relazioni educative nella nostra società, perché mina alle fondamenta come abbiamo pensato finora la scuola, la famiglia, l’associazionismo e ancora altro. Ma attenzione si tratta di compiere un salto, che ci può sembrare ovvio, ma che nella pratica poi quotidianamente contraddiciamo, considerare bambine e bambini, ragazze e ragazzi (nei fatti e non solo in teoria) come soggetti. Questo concetto non è certo chiaro in chi pensa di portare a “sgambare” il proprio bambino, come un oggetto, un cane o un animale da gestire.
Infanzia e adolescenza come età autonome, liberate dalle relazioni educative e sociali, significa mettere in discussione il predominio dell’adulto che si esprime in termini educativi, culturali, economici e psicologici.
Credo che siano sotto gli occhi di tutti le condizioni devastanti prodotte dall’ideologia “infantilistica” delle nostre società, a partire dai modelli prettamente consumistici che il mercato per l’infanzia ha imposto, dalla competizione fino ai farmaci per gestire l’ansia da prestazione e le sconfitte. Anziché occuparci del progetto di vita dei nostri bambini, adolescenti e giovani, li abbiamo trasformati in progetti a misura del mondo adulto che li circonda.
Cibo, giochi, attività, spostamenti, sport, ecc. sono sistematicamente monitorati, programmati, controllati, pensati e organizzati sempre dall’adulto e dalle sue visioni. I risultati di questa colonizzazione sono riconoscibili anche in ambito psicologico e medico: obesità, bulimia, anoressia, disturbi cardio-vascolari, depressione, autolesionismo. Il tutto in una relazione con adulti che oscillano dall’autoritarismo al permissivismo, con padri amiconi e madri giovanili, nella convinzione di poter così penetrare più efficacemente nelle coscienze “infantili” e “adolescenziali”.
Le stesse considerazioni valgono anche per la scuola che continua il ruolo di uniformizzazione della famiglia, di controllo secondo le necessità dello Stato, isolando sempre più l’infanzia e l’adolescenza da se stesse, dalla vita reale e viva della comunità sociale.
Scoprire la portata del valore in sé dell’infanzia e dell’adolescenza comporta un capovolgimento nella relazione adulto-bambino, adulto-ragazzo, un ribaltamento di prospettiva e di finalità, essere adulto al cospetto dell’infanzia e dell’adolescenza non per educare a “dover essere”, ma per “educare a essere”, solo così forse è possibile offrire alle nuove generazioni un mondo più libero e felice di quello che attualmente abitiamo, prodotto da un adultismo in funzione di sé e del mercato, anziché al servizio della vita e dei progetti di chi ora è solo apparentemente “piccolo”.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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