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Al tramonto di un’estate che alle schiere di migranti ha visto aggiungersi le coorti di insegnanti “deportati” dal sud verso il nord del Paese per poter accedere all’agognato posto di ruolo, oggi i rumori d’aula riprenderanno ad animare gli edifici scolastici della nostra città e regione, rimasti vacanti per l’intero tempo delle vacanze estive. Così si presenta la nostra scuola all’appuntamento di inizio anno scolastico. Chi sperava che fosse giunto il tempo di un’altra scuola temo che resterà deluso. Sindacati e varie corporazioni sono riusciti a monopolizzare il dibattito sull’istruzione nel nostro Paese, costringendo l’opinione pubblica a curarsi di graduatorie, precariato, dirigenti scolastici, pubblico e privato. Ma il merito della scuola nessuno l’ha sollevato. Così le nostre ragazze e i nostri ragazzi una certezza ce l’avranno, quello di trovare un sistema scolastico sempre identico a se stesso, con i suoi orari, le sue classi, le sue aule, le sue cattedre e i suoi banchi. Pare che la scuola nel nostro Paese sia l’istituzione più inossidabile, mai riformata perché mai deformata, come il motto dei Certosini “Cartusia nunquam reformata quia nunquam deformata”. Ma si sa che scuola e convento hanno affinità che datano lontano.
Mentre altrove nel mondo ci sono insegnanti impegnati nell’innovazione, che sperimentano i cambiamenti necessari a formare gli studenti del 21° secolo, i nostri studenti invece sembrano destinati a incontrare insegnanti arrabbiati, stanchi, frustrati nel loro ruolo e nella loro professione, da anni privi di formazione e di aggiornamenti. Ma la colpa è anche loro, perché proprio loro, i professionisti della suola, non sono stati in grado di parlare al Paese del loro mestiere, dei bisogni degli studenti, di un’altra scuola non fatta di passato e di cattedre da difendere. E nelle loro mani mettiamo i nostri giovani. Di quale idea di istruzione, di cultura, di formazione sono portatori questi docenti, se non quella di sempre, fatta di lezioni frontali, di compiti, di voti, di una scuola dimezzata che allo scadere degli orari chiude i battenti?
Se non cambia la mappa mentale della docenza, se l’insegnamento di ieri e dell’altro ieri vale ancora per l’oggi, se non si riforma alla radice l’apprendimento, si scriveranno sempre inutilmente pagine e pagine di “buona scuola” che agli occhi degli insegnanti sembreranno sempre già viste, sempre già state, sempre indifferentemente tutte uguali. Non perché sia oggettivamente così, ma perché gli occhiali che indossano gli insegnanti sono da troppo tempo sempre gli stessi, per cui il mondo può cambiare, ma la loro percezione resta sempre quella di tutti i giorni, è quella di ieri e continuerà ad essere sempre quella anche domani.
Dalla Montessori a Freinet, a Mario Lodi, a insegnanti di oggi come Franco Lorenzoni, come i Maestri di strada, e altri ancora, chi lavora nella scuola sa benissimo che la si può cambiare solo dall’interno con intelligenza, impegno professionale e creatività, ma è necessario un ingrediente fondamentale, la passione, la passione per il proprio mestiere e per i propri ragazzi.
Gli insegnanti sono la massa più ampia di intellettuali nel nostro Paese, nessuna riforma della scuola sarà mai possibile senza che loro si mettano in gioco in prima persona. Non sono i decreti legge che possono rivoluzionare il nostro sistemo formativo, ma il lavoro quotidiano degli insegnanti, che portano la responsabilità di rispondere all’opinione pubblica intera della qualità e degli esiti del loro impegno.
La tradizione pedagogica è ricchissima di insegnamenti e basta guardarsi intorno nel mondo per capire che cosa si può e si deve fare, al di là delle politiche dissennate dei governi sull’istruzione.
Non abbiamo bisogno che l’ex ministro Luigi Berlinguer vada al meeting di Comunione e Liberazione di Rimini per strappare facili applausi dicendo che occorre bruciare i banchi e tenere le scuole aperte tutto il giorno. I banchi teniamoceli pure, ma per favore facciamone un altro uso da quello che ne abbiamo fatto fino ad ora degno solo di una caserma. Ricordate il maestro Freinet a Bar sur Loup che fece della cattedra e della predella la base di lancio della sua tipografia scolastica e della cooperazione educativa? E per le scuole aperte tutto il giorno, se devono esserlo per continuare la scuola di sempre, grazie no, chiudano pure quando è ora.
Aprire le finestre e far entrare l’intelligenza, quella che sa leggere tra le cose, che impegna il pensiero, la riflessione, la critica, che ha piacere per lo studio in quanto studio. Perché la scuola è il luogo di tutto questo, non delle lezioni frontali, delle ripetizioni, della noia delle nozioni. A scuola ci si addestra all’uso della mente, non al suo torpore, con l’ausilio degli attrezzi del mestiere che sono le discipline in quanto grandi narrazioni del sapere e dei saperi. Il tempo della scuola merita di essere vissuto non per essere giudicati, ma per essere coinvolti, anima e corpo, cervello ed emozioni. Perché ogni singola alunna e ogni singolo alunno sia lui il protagonista responsabile e consapevole del proprio percorso formativo, non di quello standardizzato passato per tutti.
Se la scuola continua a limitarsi alla lezione, ai soli obiettivi del programma, i suoi alunni continueranno inevitabilmente a restare sudditi anziché divenire cittadini del sapere.

Nella nostra città di Ferrara l’inizio dell’anno scolastico riserva una importante novità, l’apertura presso l’Istituto Aleotti del Cpia, il centro provinciale per l’istruzione degli adulti, con una propria dirigenza e autonomia scolastica. Una occasione per la città e per tutta la scuola ferrarese per ripensare l’istruzione, come istruzione permanente, continua, come istruzione che non ha età. Purtroppo, sebbene il Cpia sia di nuova generazione, ripropone ancora un’idea scolastico-centrica dell’istruzione permanente, ben distante da quello che ci chiede oggi l’Europa, e in questo senso rischia di non avere sufficiente ossigeno per nascere e svilupparsi. Ma c‘è una carta che, a nostro avviso, può essere giocata dal Cpia con la collaborazione dell’amministrazione cittadina, quella di diventare interlocutore e promotore della città educativa, di farsi soggetto attivo della città che apprende. Riteniamo che solo questo sia il terreno che potrà consentire al Cpia di divenire un importante punto di riferimento sulla strada della città della conoscenza.

Il nostro augurio è che le polemiche e le discussioni sulla “Buona scuola” cedano il passo ad una scuola capace di collocare al centro della sua scena l’intelligenza di ogni bambina e di ogni bambino, di ogni ragazza e di ogni ragazzo, per rendere ciascuno pienamente protagonista del proprio apprendimento, perché insegnanti e alunni insieme tornino ad agire per pensare, conoscere, e comprendere.
Di fronte all’incertezza delle nuove sfide a cui impegna la cittadinanza planetaria, ci sembrano queste le armi della certezza con cui attrezzare le nostre ragazze e i nostri ragazzi di oggi, per il loro domani.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

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