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Restare attoniti è come essere colpiti dal fragore del tuono. È come stupire di fronte agli arabeschi dei fuochi d’artificio generati dall’esplosione delle polveri piriche.
Stupore e meraviglia generano il pensiero alla ricerca del bello, dell’equilibrio tra noi e ciò che è fuori di noi. È l’incontro con l’inatteso che genera il “thauma” dei greci: la gioia per il nuovo, l’angoscia per l’ignoto.

L’estetica come fondamento della sensibilità umana, l’intensità del piacere e dell’ammirazione che producono meraviglia e felicità. Ci manca così tanto l’etica nella nostra vita di tutti giorni, individuale e collettiva, che neppure più ci sfiora il bisogno di estetica: la necessità del bello, il bisogno di meraviglia. Nelle nostre vite quotidiane le emozioni sono continuamente sollecitate dai piazzisti di beni materiali e immateriali, dal mercato alla politica, dallo spettacolo alle nuove tecnologie. È la modernità, bellezza! Le emozioni hanno di gran lunga soppiantato i temi storici della ragione e della virtù, di qui l’etica è divenuta un’emergenza della nostra convivenza civile.

Un eccesso di emozioni ha finito per inaridire la nostra sensibilità, non siamo più in grado di farne un buon uso. L’equilibrio tra emozione e reazione si è spezzato, come quello tra sentimento e ragione. Ritornare all’arte non per consumarla, ma per provare a percorrere un cammino di rieducazione, di recupero dell’umano che abbiamo bruciato. Provare a riconoscere quanta poesia e quanta prosa costellano ancora le nostre giornate.

È uscito l’ultimo libro di Edgar Morin, ‘Sull’Estetica‘, in cui raccoglie trent’anni di note relative alle sue esperienze letterarie, poetiche e musicali, oltre ad appunti su cinema, fotografia e pittura. Esperienze del bello, esperienze di emozioni, dal ‘Vascello fantasma’ di Wagner a ‘Una stagione all’inferno’ di Rimbaud, da Picasso a Kandinskij, da Balzac a Zola. Shakespeare e Dostoevskij, come Sergio Leone e Francis Ford Coppola. L’estetica, come “aisthesis”, come sensazione e sentimento, prima di essere il carattere proprio dell’arte, ci ricorda Morin, è un dato fondamentale della sensibilità umana. Cita il pensatore americano Ralph Waldo Emerson: “Ogni uomo è così profondamente poeta da essere suscettibile degli incanti della natura”. L’emozione estetica, dunque, non è solo propria della fruizione dell’opera d’arte, ma risiede nella capacità di ognuno di noi di mantenere intatta la propria forza d’incanto.

Lo sciamano che è in noi è andato perduto, il genio che ha l’occhio per guardare diverso dallo sguardo di tutti i giorni, dallo sguardo di tutti gli altri. Non c’è tempo per questi tempi nel nostro tempo. Non è previsto e neppure pensato, le lunghezze d’onda sono altre. Ma il tempo così si svuota di intelligenze, dell’opportunità di capire e di crescere, della possibilità di uscire verso il futuro. Le occupazioni delle nostre società da queste dimensioni sono distanti e neppure hanno le orecchie per ascoltare e gli occhi per vedere.

Il bello non appartiene più ai nostri orizzonti. E la nostra follia che ci conduce ai precipizi non è il prodotto del disagio estremo che prelude ai territori fertili dell’arte.
Nella civiltà del calcolo, del profitto, della frammentazione, dell’esistenza anonima, avremmo bisogno di essere nutriti oltre che di pane anche di poesia, scrive Morin. Non deve stupire, perché basta guardarsi attorno per scoprire che nella moltiplicazione dei festival cresce un neo-tribalismo come espressione del bisogno di condividere, di godere insieme di un bel concerto, di una bella opera. Ma non cresce l’umanità, non germina una coscienza nutrita da una filosofia umanista rigenerata, anzi, ognuno si fa tribù.
È l’esperienza estetica che manca, il ritorno a essere capaci di meraviglia e di stupore, acceleratori della coscienza, del pensiero, della comprensione dell’universo.
Ciò di cui abbiamo bisogno secondo Morin è di ri-educare all’estetica, essere curiosi, cercare di sapere, cercare di conoscere, indagare il senso della vita e la sua complessità.
Recuperare la comprensione umana attraverso l’arte, dal romanzo al teatro, dal cinema alla poesia, alla pittura, per tornare a ri-vedere con lo sguardo pulito, a ri-conoscere il bello e la meraviglia, per ri-prendere il controllo delle nostre vite contro l’ascesa dell’insignificanza.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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