LA CITTA’ MUTA
E per la Giunta di Ferrara la scuola può aspettare
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Come dite? No, nessuno ha risposto alla mia proposta per aprire le scuole a settembre nella nostra città [Qui]. Non il Sindaco, neppure gli altri soggetti chiamati in causa: dirigenti scolastici, presidenti dei Consigli di Istituto. Per non parlare delle forze politiche che siedono in Consiglio Comunale, le quali tacciono come se fossero ammutolite dalle mascherine anti Covid. O non sono lettori delle cronache locali o il problema non li tocca.
Eppure gli strumenti per organizzare un anno scolastico speciale, dandosi da fare fin da ora, ci sarebbero, attendono solo di essere utilizzati. Non voglio scivolare nella citazione di articoli e commi, ma la legge sull’autonomia scolastica e le norme sulle competenze dei consigli di istituto offrono notevoli spazi d’azione, basterebbe avere le idee e la volontà di darsi da fare.
In questa rubrica da anni offriamo idee e esperienze che si muovono nel mondo a proposito di scuola, di istruzione permanente e di educazione diffusa sul territorio, ma certo non posso pretendere di avere più lettori delle dita di una mano.
L’eccezionalità della situazione sarebbe da cogliere per passare dalle parole ai fatti e fare del territorio il centro del progetto educativo, il luogo della crescita, delle avventure che attendono chi si incammina lungo la strada della conoscenza. Forse si preferisce attendere le disposizioni della ministra Azzolina e della task force presieduta dal ferrarese professore Patrizio Bianchi. Ma questo non ci esonererebbe dal fare anche noi la nostra parte, dando con la nostra iniziativa una mano alla ministra e all’illustre concittadino.
Invece del metro per misurare le distanze tra i banchi dentro alle aule, potremmo incominciare col fare l’inventario delle risorse, a partire dagli spazi e dalle occasioni educative, che la città potrebbe mettere a disposizione delle scuole, da quelle primarie alle secondarie di ogni grado. Arricchire il piano dell’offerta formativa che ogni scuola deve compilare con il piano dell’offerta formativa della città a cui attingere per fare della città una scuola diffusa oltre le aule dei suoi edifici scolastici, in questo momento in cui spazi e distanze fisiche sono importanti, abbattendo le distanze sociali, a partire da quelle tra la scuola e il suo territorio.
Tempo fa è uscito un libretto interessante, la cui lettura allora consigliai ai nostri amministratori: La città educante, Manifesto dell’educazione diffusa, scritto dal pedagogista Paolo Mottana con Giuseppe Campagnoli, architetto, già dirigente scolastico ed esperto dell’Unesco nel campo dell’educazione e della creatività.
L’idea della città educante nacque vent’anni fa a Barcellona sotto il patrocinio dell’Unesco, se ne avessimo coltivati gli obiettivi oggi sapremmo meglio come affrontare l’emergenza scolastica. Città educante significa formazione continua nel tempo (lifelong learning) e nello spazio, scuola, ambienti esterni, tempo libero, superare l’istituzione scolastica come luogo esclusivo dell’apprendimento dei nostri giovani.
Rimettere in gioco, piccoli e grandi, ma è necessario che scuola e città imparino a dialogare, si alleino per assumere insieme il ruolo educativo in maniera pervasiva. Ragazze e ragazzi, bambine e bambine costituirebbero una nuova linfa da troppo tempo emarginata, mortificata, imprigionata nelle classi, nelle aule, nei banchi.
Non più insegnanti trasmettitori di discipline ma compagni di viaggio, registi, guide, professionisti capaci di agevolare i percorsi di interconnessione dei saperi, di formare all’autonomia e all’autorganizzazione.
Pensare i luoghi della città come luoghi di apprendimento non occasionale, come parte integrante del progetto educativo, come i luoghi di un’idea di scuola aperta, dove gli edifici scolastici divengono i punti di partenza e di ritorno, i luoghi della riflessione, dell’approfondimento, dove le esperienze compiute trovano la loro organizzazione nei percorsi curricolari.
Il sapere è movimento, è ricerca continua, non può amare la staticità delle aule e dei banchi, del resto i nostri giovani, a queste condizioni, difficilmente possono innamorarsi del sapere e della fatica di studiare. È possibile che qualche chierico zelante tema che dietro a tutto ciò ci stia il progetto di una progressiva descolarizzazione alla Ivan Ilich, un venir meno dell’autorità del docente. Ma l’unica strada che inevitabilmente è destinata a portare alla descolarizzazione è quella di chi crede ciecamente nell’autosufficienza della scuola e nel ruolo immutabile dei suoi insegnanti, nonostante il divenire dei tempi.
Sarebbe veramente da ciechi non cogliere l’opportunità che oggi si presenta per avviare una riflessione, per tentare qualche passo in avanti verso la città educante. Già qualcosa si potrebbe fare se Amministrazione Comunale, dirigenti scolastici, insegnanti e presidenti dei consigli di istituto si trovassero insieme a ragionare. Un tavolo? Una conferenza? L’importante è darsi da fare, possibilmente da subito.
Giovanni Fioravanti
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Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.
Se già frequentate queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.
Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani. Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito. Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.
Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta. Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .
Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line, le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.
Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e di ogni violenza.
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