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“Exodus”: il reportage di Mario Fornasari in una mostra documento a Ferrara fino al 10 novembre 2016 ci mostra la drammatica realtà dei campi profughi.

di Eleonora Rossi

“Continua ad appassionarmi tutto ciò che muove il mondo e si muove nel mondo”.
Mario Fornasari non è solo un giornalista professionista e un reporter. È un viaggiatore.
Sa osservare, mettersi in ascolto; sa adattarsi, o cambiare rotta.
Del vero viaggiatore ha la curiosità, il rispetto, lo spirito libero, il senso della sfida.

“Al liceo sognai d’essere testimone nel mondo e comprai la prima Nikon”.
Il suo lavoro di cronista lo ha avvicinato quotidianamente all’uomo e all’umanità, alle storie dentro alla storia. Dopo anni intensi di giornalismo, oggi Mario Fornasari si dedica alla fotografia: l’obiettivo della macchina fotografica è il suo sguardo, profondo, di attenzione. Di comprensione.

Per la sua pagina Facebook ha scelto il nome “Contrarian”, ovvero “l’investitore in controtendenza”. Forse per questo Mario Fornasari investe proprio in ciò che non ha prezzo: “È il tempo che fa la differenza – racconta con voce pacata e rassicurante -. Nel tempo ritrovato è come se riuscissi a ricongiungere i fili spezzati”.
Sulla pagina “Contrarian” (così come sul sito mariofornasari.net, su blog.Quotidiano.net e flickr) si possono ammirare alcuni degli scatti del fotografo: reportage da inviato accanto a paesaggi interiori e immagini della nostra città.
Una Ferrara dal volto inconsueto, sorpresa nei suoi dettagli inediti: ellissi ritagliate nell’azzurro, architetture di nebbia, “segni agli angeli”, diamanti di pietra imbevuti di luce.
Gli occhi dell’autore si illuminano mentre descrive la “serie del volare”: immagini fotografiche dove i particolari artistici sembrano spiccare verso il cielo, in ascesa vertiginosa.

“Exodus, trappola nei Balcani” è il titolo della mostra al numero 46 di via Ripagrande, allestita nella sala dell’associazione Rrose Sélavy fino al 10 novembre 2016 (mercoledì, venerdì, sabato, 15.30-19).
Professionista scrupoloso, Mario Fornasari ci accoglie con calore nella terra delle sue fotografie: landa di confini da oltrepassare, anche metaforicamente.
“Le mani del profugo siriano, aggrappate alla rete che sbarra la frontiera tra Serbia e Ungheria, sono il marchio di un’ Europa incapace di accogliere il sogno di una vita migliore per chi fugge dalle tragedie della guerra”. È questa l’immagine simbolo di Exodus, mostra documento inaugurata nell’ambito di Internazionale. Qui il reporter è “testimone nel mondo”.
Ogni singolo scatto racchiude una narrazione, racconta un vissuto. Immagini garbate, rispettose, che rivelano nobiltà d’animo e capacità empatica non comuni. Cogliendo “gli sguardi, le sensazioni, i gesti” nell’istante di massima espressività, la fotografia di Mario Fornasari incontra le persone.

Come è nato questo reportage?
La migrazione di popoli in cerca di una vita migliore ha messo sotto pressione l’Italia e, più in generale, l’Europa. Ma l’esodo dal Medio Oriente in guerra ha qualcosa di imponente, di biblico: incalza gli Stati, scuote le coscienze, mette in crisi le classi dirigenti. La rotta balcanica ha visto transitare, lo scorso anno, all’incirca un milione di persone, in condizioni spesso disperate: la chiusura delle frontiere, nel sud dell’Europa, ha acceso il mio desiderio di vedere e capire di più.

Quando sono state scattate le foto?
Sono partito due volte, in agosto e in settembre dell’anno scorso, per testimoniare con immagini e servizi quanto accadeva nel confine settentrionale tra Horgos (Serbia) e Roszke (Ungheria), nei cosiddetti campi di accoglienza o nei bivacchi improvvisati a ridosso dei confini blindati dai muri di rete e filo spinato. Poi, nell’aprile di quest’anno, con tutte le frontiere chiuse, sono arrivato a Idomeni, un paesino greco di 150 abitanti al confine con la Repubblica di Macedonia: ospita il più grande campo profughi assieme alla giungla francese di Calais. Sono all’incirca 5000 foto, tra le quali una cinquantina sono selezionate per le clip e una ventina per la mostra.

Che cosa ha provato Mario Fornasari quando era là?
Immaginate donne e bambini a cui non è permesso di uscire dai campi di accoglienza, sotto tendoni bollenti per il sole, disperati nel chiedere acqua a cronisti o fotoreporter che si ritrovano a lanciare bottigliette sopra le reti di recinzione finché la polizia non interviene. Oppure pensate a giovani donne con figlioletti di pochi mesi che hanno percorso migliaia di chilometri e, stremate, cercano di dormire tra i guard-rail dell’autostrada chiusa. Ti chiedi quanto debba pesare l’essere nato dalla parte (oggi) sbagliata del mondo. Fa pensare la solidarietà tra loro, che vedi nelle situazioni più disperate, nelle parole dei bivacchi, tra tende precarie, immondizia, fumi densi del fuoco che brucia bottiglie, sterpaglie, cassette per riscaldare le persone. Ho passato notti accanto a siriani, afghani o iracheni, senza grandi timori. Situazione diversa a Idomeni, dove le associazioni umanitarie garantiscono comunque cibo per tutti, dove l’emergenza si cronicizza e pian piano rimette in moto le divisioni di genere, di clan, di nazionalità.

Un esempio…?
Una mattina all’alba il vento era terribile, alzava nuvole di polvere che sferzavano i volti e arrivava a spazzare via le tende meno solide. In una parte del campo, quella più battuta dalle raffiche, le tende erano state protette e sormontate da coperte legate tra loro e fissate a pali o per terra: uno sforzo spesso inutile. Due donne irachene, una delle quali in gravidanza ormai avanzata, stavano lottando per mantenere la protezione alle tende, dentro le quali dormivano i figli. Immagini quasi epiche che tentavo di riprendere, prima del dubbio che può inquietare il cronista: lasciare quelle donne sole a lottare contro le intemperie e continuare a lavorare, oppure intervenire per dar loro una mano? Ho riposto la macchina fotografica. Dopo una ventina di minuti di lotta impari contro il vento è esploso un gran vociare e sono tranquillamente usciti dalle tende i due mariti. Le differenze di genere erano già rientrate nel campo, cosa che non avevo mai visto ad Horgos, dove tutti sembravano molto più solidali.

Ed è riuscito a ricreare con le immagini le stesse sensazioni?
Le foto hanno un significato particolare quando sono capaci di darti una chiave di lettura, di farti entrare in un universo che non conosci e di svelartelo confida Paolo Pellegrin, uno dei migliori fotoreporter italiani di sempre. L’obiettivo è ambizioso, mi accontento di essere testimone e tentare di condividere, con le parole e le immagini.

Mi ha colpito nelle fotografie il colore, la caparbietà nell’espressione dei volti. Sono ritratti di vita che resiste, con tenacia. Era questo che voleva catturare nelle immagini?
Non sempre quel che ritrai con la macchina fotografica racconta un percorso intellegibile, predefinito, conscio: a volte è vero esattamente il contrario, è istintivo, assomiglia a una visione che man mano si svela.

Ha raccontato la storia di quelle persone anche con le parole?
Sì, Quotidiano Nazionale e Quotidiano Net hanno pubblicato foto e servizi.

Quale colonna sonora ha scelto per le sue immagini?
Le clip propongono un brano sempre diverso: Trappola nei Balcani, la clip complessiva, è arricchita dal concerto numero 2 di Rachmaninov che mi ricorda il senso della storia, di un fiume che scorre tra gli argini, dei migranti in cammino accanto a muri e sbarramenti. La clip Madonne con bambino seleziona le immagini con madri che curano i propri figli, a volte di pochi giorni, accompagnate da un preludio di Chopin mentre Idomeni ha la voce di Freddie Mercury con i Queen in Who wants to live forever. I Bambini infiniti, dedicata alle centinaia di ragazzini incontrati in questi viaggi, sono accompagnati dalla chitarra di Paco de Lucia in Cancion de Amor.
Giornalismo e fotografia: due talenti che si specchiano e si completano per raccontare la storia. Quando ha iniziato a scrivere?
Talento è un termine impegnativo e non so se lo sento adatto. Al liceo sognai d’essere testimone nel mondo e comprai la prima Nikon (che conservo ancora), grazie a un mese di lavoro estivo: iniziai con reportage dal nord Africa, scritti e fotografici, e con un viaggio tra i ragazzi che morivano di droga a Verona. Quest’ultimo fu acquistato per 100 mila lire. In seguito lavorai all’esperienza degli asili-modello in Emilia Romagna, alla vita nelle case di riposo o nei manicomi prima della riforma Basaglia, mi dedicai al carnevale di Venezia e alla foto di teatro senza grandi risultati per dire il vero. Ma oggi si direbbe che il tutto non era economicamente sostenibile, cioè non riuscivo a vivere di quel tipo di attività: la scelta fu di affinare la scrittura e approfondire i temi del giornalismo. Sono stato a lungo corrispondente di Repubblica che mi sgrezzò grazie a Luca Savonuzzi, il primo di tanti maestri. L’assunzione al Carlino mi cambiò la vita, il giornale mi diede quasi tutto quel che cercavo dal punto di vista professionale e mi costrinse a dare tutto: il ruolo di capo della redazione di Ferrara mi ha permesso di approfondire il legame con la città, il passaggio alla redazione nazionale ha implicato il confronto con i grandi temi italiani e internazionali, l’arricchimento, lo studio continuo. Ho seguito gli sviluppi della grande crisi americana come caporedattore responsabile di politica, economia e finanza, passando notti a tentar di capire cosa potesse esserci dietro ai famigerati prodotti finanziari derivati, l’arma di distruzione di massa per dirla con il guru Warren Buffett. Dal cronista che racconta prevalentemente le persone e le comunità, al cronista che testimonia e commenta fatti politici, mercati finanziari, banche centrali.

Che cosa significa per lei scrivere?
Mi piace soprattutto descrivere le situazioni, gli sguardi, le sensazioni, i gesti, gli odori, i sogni. Il tempo. In politica e in economia bisogna svelare i retroscena, intuire gli indirizzi, capire gli sgambetti e, a volte, raccontare le utopie. Dopo l’uscita dal desk del giornale ho provato a riunificare le varie esperienze di scrittura: raccontando la crisi ad Atene, le operazioni tecniche di blocco della liquidità da parte della Bce e gli errori della Troika si sono impersonificati nelle parole disperate dell’impiegato che ha perso il lavoro con il taglio degli statali, nel volto dell’anziano che non riesca più ad avere medicine o nella rabbia di chi non vede più un futuro in patria.

Cosa rappresenta invece la fotografia?
L’immagine è immediata, arriva subito. È spietata: come giornalista posso essere lontano da un fatto ma riuscire a raccontarlo lo stesso, non è così per il fotoreporter che non può recuperare la foto di un episodio passato a meno di non patteggiare con la propria coscienza e proporre immagini costruite. Grandi fotografi hanno osservato che una bella foto non ha bisogno di descrizioni o didascalie, però in un reportage immagini e parole, magari anche brani musicali, possono completarsi nell’esprimere una sensazione.

Quali sono i progetti futuri?
Continuo a seguire i mercati finanziari che ora guidano il mondo, intriganti nella loro aridità e nell’apparente follia: non so se sia finita per sempre l’era in cui l’ingegneria finanziaria avrebbe dovuto migliorare l’esistenza di tutti. In parte l’ha fatto, nonostante oggi prevalgano avidità e cinismo. D’altra parte mi stimola lo studio sulla luce di Ferrara e quest’anno vorrei continuare lavorare sul tema delle migrazioni e spostarmi sulla rotta italiana, dal Mediterraneo al Brennero. Mi piacerebbe poi tornare dove sono già stato per il giornale in Sardegna, nel Sulcis, quattrocento metri sottoterra dove gli ultimi minatori italiani lottano per continuare un lavoro duro e ottocentesco che non ha più prospettive economiche di sopravvivenza.
E continua ad appassionarmi tutto ciò che muove il mondo e si muove nel mondo.

Bambina di Mario Fornasari
Madre di Mario Fornasari
Mano di Mario Fornasari
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Redazione di Periscopio


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