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È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura… Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. “La Grande Bellezza”, Jep Gambardella

C’era una volta una bellezza imperiale, una cultura magistrale e unica, una fantasia indefinibile. C’era una volta una civiltà che aveva creato leggi e regole.
C’era una volta una storia fatta di vittorie e di conquiste, di primati e di grandi uomini, oratori, pensatori, architetti, scrittori, scultori, mecenati e artisti.
C’era una volta una città che costruiva i grandi acquedotti, che ospitava Michelangelo, Raffaello e Bernini. Una città di fiori, di canzoni, di Madonne affrescate agli angoli delle strade, di carrozze con i cavalli, di vento fresco che accarezzava capelli e cupole.
C’era una volta la città del cinema, della dolce vita, della bellezza. C’era una volta Roma.
Oggi che gli scavi che ritrovano il più grande bacino idrico mai ritrovato della Roma imperiale si mescolano a enormi scandali che la travolgono, siamo vicini a questa bellezza perduta ancora più di prima. Insieme a Jep Gambardella, che ne “La Grande Bellezza” ci riporta al pesante connubio tra memoria e sperpero che affanna questa meravigliosa città, a un film dal titolo antifrastico, usato cioè per rivelare la “grande bruttezza”, per raccontare, in maniera simile alla bellezza in disfacimento delle nature morte barocche, la vanitas vanitatum, la fatica di un mondo che fa perdere un sacco di tempo e che «accoglie tutti come un grande catino» (P. Sorrentino, Hanno tutti ragione, Feltrinelli), dove si confondono, fermentando l’uno nell’altro, alto e basso, grandezza e meschinità, musica sacra e ritmo techno. Un turbinio di bene e male.

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Jep Gambardella

In questo film, ora più che mai attuale, siamo persi nella vanità capitolina, in un mondo che si guarda vivere, spesso senza far nulla, proprio come Jep, che si perde e vaga/divaga tra inutili e frenetiche feste in terrazza, incontri vacui, maschere e apatia, sogni strani e camminate solitarie lungo il fiume Tevere. Crisi d’identità che ci attanaglia? Tentativo di ritrovare una spiritualità perduta come quella che solo nell’eterna Roma si può cercare e, magari, ritrovare? Un pensiero al niente rappresentato da questa società italiana ormai così drammatica e vicina al collasso, una realtà in cui viviamo a noi estranea e che molti non comprendono più?
Roma ci lascia sempre senza parole, nel bello e nel brutto, la capitale mondiale dei tramonti, del monumentale, della bellezza che incombe, ovunque, che da’ brividi e pretende venerazione, che scioglie le paure ma che ci lascia perplessi di fronte all’attuale contraddizione di un disfacimento di consumi e di moralità che fa molto male.
Ci si crede intellettuali, come alcuni degli amici di Jep, solo perché si leggono libri dai titoli altisonanti o perché non si ha o non si guarda la televisione, si vive in un disfacimento trasversale di una commedia-tragedia delle apparenze.

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La solitudine del protagonista
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Veduta del cupolone

Una Roma nascosta sfila in questo film, una Roma che c’era e c’è ancora ma che spesso vorremo ritrovare. Una bellezza che non sfugge ma che si confonde, che ci consuma nel dubbio di come si possa coniugare con tanta bruttezza. Non vogliamo dare giudizi politici o morali di alcun genere. Siamo solo confusi, spaventati da chi tale bellezza non vede.

La Grande Bellezza, di Paolo Sorrentino, con Italia/Francia, con Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Roberto Herlitzka, Isabella Ferrari, Giorgio Pasotti, Vernon Dobtcheff, Serena Grandi, Luca Marinelli, Giulia Di Quilio, Massimo Popolizio, Giorgia Ferrero, Pamela Villoresi, Carlo Buccirosso, Ivan Franek, Stefano Fregni, 2013, 142 mn

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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