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In questi assolati e afosi giorni di agosto i dati economici diffusi da tg e giornali d’informazione fotografano una situazione in netto contrasto con i proclami governativi che ci raccontano invece di aumento dell’occupazione, ripresa, sviluppo e di un’Italia che addirittura guida il cambiamento nell’Europa del rigore. La cruda cronaca ci dice invece di un’Italia che arranca, fa fatica, di poveri in aumento, di Comuni che protestano perché non riescono a far fronte ai loro impegni, di una Sanità con meno fondi, di multinazionali che fanno incetta di aziende italiane mentre noi siamo distratti da qualche migliaio di migranti che arrivano sulle nostre coste e che non riusciamo a gestire.

E in un Italia che soffre per il caldo e per la crisi economica esiste anche o ancora una questione meridionale che un po’ come la questione palestinese non vuole morire forse perché non si trova il modo di parlarne in maniera critica, obiettiva, storica e si continua a girarci intorno, a essere ridondanti (utilizzare bene i fondi europei, le vecchie amministrazioni hanno lavorato male, ecc.) e inconcludenti. Intanto anche qui la cruda realtà dei dati dice che la crescita del nostro Sud è peggiore di quella della Grecia ed ancorato al 1977 e che addirittura nascono meno bambini che in età pre unitaria, segno che oramai si è persa anche la speranza.

Parte di questa insistente diversità, di questo sviluppo a doppia velocità tra Nord e Sud ha radici e motivazioni antiche perché la nostra Italia ha una storia fatta di popoli e civiltà diverse e di lingue che poi sono diventate dialetti, quindi una eventuale unione avrebbe dovuto essere fatta in maniera sapiente e condivisa. Quando si è pretesa l’unificazione esistevano fondamentalmente due Regni e un Papato con le loro caratteristiche e il loro sviluppo economico. Di questi il più disastrato e meno credibile agli occhi delle diplomazie europee era sicuramente quello piemontese che intraprese una vera e propria azione coloniale ai danni degli altri.
E come tutte le azioni coloniali, ovviamente non condivise né sapienti, ha lasciato i suoi strascichi negativi che sopravvivono ancora oggi nei dati annuali d’agosto di cui si parla qualche giorno e poi si consegnano alla quotidianità senza mai indagarne le ragioni. Poi, oltre alla critica storica, la riforma strutturale che servirebbe davvero all’Italia sarebbe quella di eliminare l’idea che i nostri problemi si possano risolvere ‘utilizzando bene i fondi europei’ come dice il ministro Madia.

In questo mese di agosto si mescolano dati statistici e ricorrenze di storia unitaria e chissà quanti sanno che a Pontelandolfo e Casalduni il 14 agosto 1861 si ricorda un accadimento luttuoso. In quella data, infatti, i due paesini del beneventano furono rasi al suolo da un esercito che era stato piemontese ma che era da poco diventato italiano.
Un esercito che si vendicava dell’uccisione avvenuta qualche giorno prima di quarantuno bersaglieri e carabinieri, compiuta dai cosiddetti briganti, bruciando case e uccidendo cittadini che da poco, anche loro ma a forza, erano diventati italiani, quindi della stessa nazionalità dei vendicatori. Il numero delle vittime è tutt’oggi incerto e frutto di interpretazioni che fanno ben comprendere la poca chiarezza storiografica degli avvenimenti che vanno dal 1861 al 1865, anni in cui fu fatta l’Italia. Si va infatti da 13 vittime ad addirittura più di mille!

Il punto oggi però non è quanti morti si contarono o quante case furono incendiate ma il fatto che un esercito combatteva la sua stessa popolazione come e più di un esercito coloniale e non come un esercito di liberazione. Una popolazione che si continuò a combattere per molti anni, per convincerla di essere italiana a suon di ferro e fuoco. Ferro e fuoco che lo stesso eroe Garibaldi, dopo aver consegnato un Regno ai Savoia e un popolo a decenni di umiliazioni ed emigrazione gettando le basi per uno sviluppo ineguale, disse non si sarebbe dovuto utilizzare per risolvere i problemi causati dall’invasione che in fondo lui stesso aveva iniziato.
Che eccidio ed errore ci fu lo dimostra comunque il fatto che nel 2011 Giuliano Amato in rappresentanza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dopo ben 150 anni di oblìo, andò a chiedere scusa a nome della Repubblica Italiana proprio a Pontelandolfo. Poi nel 2013 Venezia tolse il nome alla piazza intitolata al Luogotenente del Re Cialdini che aveva ordinato la strage (astenuta la Lega Nord). Ancora resiste la lapide intitolata al colonnello Pier Eleonoro Negri a Vicenza, che era al comando dei bersaglieri che attaccarono i due paesi.

Sono passati intanto 154 anni dal 1861, dalle lotte ai briganti meridionali, e la cronaca, scritta ovviamente dai vincitori, non ha solitamente bisogno di tanto tempo per diventare storia e poter essere affrontata in maniera aperta e critica. Non sembra però che questo passaggio sia mai avvenuto e la maggioranza dei cittadini italiani continua a pensare che al sud i piemontesi trovarono più miseria e ignoranza di quanto fosse normale al tempo. Fu instillata nella gente del nord la figura grottesca del meridionale basso, sporco, brutto e ignorante. Il contadino che viveva con gli animali e come un animale come se il contadino del nord avesse al tempo già le stalle con l’aria condizionata. E una classe regnante, i Borboni, incurante del benessere del suo popolo, che torturava e lo teneva nell’arretratezza.

Insomma, tutto ciò che era il regno sabaudo fu trasferito, grazie all’opera di Garibaldi, al regno borbonico e per completare il tutto si provvedette a trasferire al nord qualsiasi cosa funzionasse. E addio alle aziende siderurgiche (la Calabria da regione fiorente prima dell’unità d’Italia diventa quello che è oggi), ai cantieri navali e alle sue flotte, agli opifici di lana, cotone e lino, alle fabbriche di macchine agricole.
Si crearono etichette che hanno resistito fino ai nostri giorni che potessero giustificare ogni atrocità ai danni di una popolazione che forse non voleva e non aveva bisogno di essere liberata. Addirittura si andò alla ricerca di un’isola sulle coste dell’Argentina dove deportare i meridionali più difficili da domare, azione che suscitò lo sdegno anche del parlamento inglese e di troppo pochi deputati ‘italiani’.

Chi distrugge, massacra e depreda non dovrebbe mai essere chiamato eroe, tantomeno chi lo fa attaccando e non per difesa. Non c’è mai una ragione nell’attaccare un popolo che vive la sua vita con la sua storia e le sue tradizioni se non l’arroganza di sentirsi superiore.

Ma è interessante osservare che in molti casi la colpa si geografizza, ovvero chi sta a sud è peggio di chi sta a nord e l’Europa si è sempre sentita il nord del mondo. Nelle civiltà antiche era invece il sud la parte nobile e nelle prime embrionali mappe geografiche il sud era rappresentato in alto. Nella stessa Europa c’è sempre stato un sopra e un sotto e il nord dell’Italia sapeva bene cosa voleva dire essere a sud di qualcosa. Il Veneto era stato il sud dell’impero austroungarico è come tale trattato.

La Lega Nord che oggi si erge a difesa degli interessi italiani e contro l’invasione dei sudisti africani, ha per anni soffiato sul fuoco delle interne differenze geografiche e contro i sudisti italiani. Poi però tutti insieme ci stiamo risvegliando a sud dell’Europa che conta, addirittura classificati tra i maiali d’Europa (PIIGS), un po’ come i contadini post unificazione dell’ex Regno borbonico, forse ci sarà chi nel nord Europa pensa che dormiamo con gli animali, che siamo pigri, che i nostri giovani non si impegnano abbastanza (lo pensava anche qualche ministro italiano per la verità!).

L’Italia dovrebbe riconquistare, posto l’abbia mai avuta, capacità e indipendenza di giudizio e di critica storica. Una seria analisi del passato aiuterebbe a capire gli avvenimenti e i dati di oggi. Il Sud di allora, come l’Italia di oggi, non aveva bisogno di essere colonizzato perché le unioni si costruiscono con i valori comuni, la condivisione degli obiettivi, la creazione del benessere diffuso. Questi presupposti non c’erano allora come non ci sono oggi per questa Europa unita in nome degli interessi finanziari, anch’essa divisa geograficamente tra un nord e un sud.

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Claudio Pisapia

Dipendente del Ministero Difesa e appassionato di macroeconomia e geopolitica, ha scritto due libri: “Pensieri Sparsi. L’economia dell’essere umano” e “L’altra faccia della moneta. Il debito che non fa paura”. Storico collaboratore del Gruppo Economia di Ferrara (www.gecofe.it) con il quale ha contribuito ad organizzare numerosi incontri con i cittadini sotto forma di conversazioni civili, spettacoli e mostre, si impegna nello studio e nella divulgazione di un’informazione libera dai vincoli del pregiudizio. Cura il blog personale www.claudiopisapia.info

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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