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Niente di più facile. Entri dall’ingresso principale, stai attento, non il 2, l’ingresso 1, entri e a sinistra ci sono gli ascensori, sali al primo piano e prendi il corridoio numero 1. No che non è difficile, ci sono solo tre immensi corridoi, il corridoio 1, il numero 2 e il numero 3. Ci sei fino a qui? Cammini, a destra c’è la chiesa dei cattolici, poi una stanza con un cartello che dice Altri culti, passi davanti al reparto 2B1 e entri nel 3C1: Neurologia. Stai calmo, i matti non c’entrano, quelli, se non son fuori, li mettono in Diagnosi e Cura. Ma cos’è questa paura dei matti? In ogni caso, ora sei entrato in reparto. Vai sempre dritto, io sono in fondo al corridoio, camera 13, letto 45.

Letto 44, di fianco a me – la camera è ampia, luminosa. azzurrina, con solo due letti – c’è il signor Onorato. E’ arrivato in reparto mezz’ora dopo di me, accompagnato da una moglie monumentale – che il giorno dopo conoscerò come la signora Marisa e il giorno appresso come Marisa e basta – una donna tranquilla e potente, solida come un faraglione di Capri. C’è anche il figlio, in versione autista, ma capisco subito che non conta molto, un elemento aggiunto per fare i servizi. Onorato mi sembra esageratamente vecchio ma magari non lo è; minuto, magrissimo, scuro di carnagione. Da solo non sta in piedi; non parla, non mangia, neppure il passato di verdure, e vuole andarsene al più presto, dall’ospedale o anche, chissà, dalla vita, direttamente. Dalla mattina alla sera la signora Marisa sta sempre attaccata a Onorato. Lui dorme, lei lo guarda. Arriva l’infermiera e gli cambia la flebo. Arriva il pranzo, il pranzo d’ospedale che puoi immaginare, e la signora Marisa lo aiuta ad alzarsi, lo sorregge fino al tavolino, ma Onorato guarda il piatto e non mangia, non mangia nemmeno la ciambella portata dalla signora Marisa da casa. Mi ci metto anch’io a incitare l’inappetente, e passo al tu per essere più convincente: Insomma Onorato almeno il prosciutto crudo lo puoi mangiare! Pare impossibile, ma non è niente male questo prosciutto dell’ospedale. O sono io che ho imparato ad accontentarmi? La signora Marisa mi guarda e scuote la testa. Poi fruga nella borsa e tira fuori un involto. Mi sono guadagnato anch’io una fetta di ciambella casalinga. Vedi le buone azioni. Grazie, buonissima, ma ci ha messo il burro o l’olio? Certo l’olio, volevo ben dire. Ne vuole un’altra fetta, chiede Marisa.

A sera la figlia femmina viene a “ritirare” la mamma. Al mattino il figlio e la sera la figlia. Poi viene notte e mi chiedo come sarà la mia prima notte. Io in questo letto non riesco a dormire, è troppo duro, è troppo morbido. Passo da un libro all’altro, ma questa notte non trovo il libro giusto. Spengo la luce, mi giro sul fianco, mi metto a panza in su, riaccendo la luce, scelgo un altro libro dalla generosa scorta che ho portato con me. Onorato è immobile, dorme, ma invece non dorme, grazie a una lunga e laboriosa operazione si mette a sedere sul fianco del letto, si alza, si dirige barcollando verso la porta del bagno. Che gran lusso, abbiamo il bagno in camera. Tutto bene Onorato, mi informo. Magari è sonnambulo. Invece Onorato mi fa un piccolo cenno e si infila in bagno, per uscirne cinque minuti dopo e compiere il cammino a ritroso verso il letto. Ogni mezz’ora, minuto più minuto meno, come il tocco della mezzora delle campane, Onorato va a fare pipì; pochissima immagino, vista la frequenza; oscilla pericolosamente sulla strada di andata e ritorno, ma ce la fa sempre.

Tutto bene, mi dico, io leggo.Ho trovato una storia che forse fa al mio caso; non è un capolavoro questo Professore Desiderio ma Philip Roth scrive da dio, sempre sulla superficie della vita e del suo io, con una sincerità imbarazzante, e una lingua incalzante, percussiva, sfrontata. L’ebreo Kepesh, alter ego dell’ebreo Philip Roth, insegna all’università, studia perennemente e cita in continuazione i suoi amati Cechov e Kafka. Kepesh racconta la sua vita ma sopra tutto il suo intricato rapporto con le donne. Che ama, che insegue, che fugge, che desidera con tutto il suo sesso e tutta la sua mente. In definitiva, prima di Kafka e prima di Cechov, il vero protagonista è il desiderio sessuale e il desiderio in generale. Continuo leggere e rimango di stucco quando arriva l’erezione. Potenza della letteratura, ma no, sarà l’effetto dei farmaci anticoagulanti. Mollo il libro e finalmente prendo sonno. Mi sveglio poco dopo e guardo alla mia sinistra verso il letto 44. Onorato non è al suo posto. Guardo la porta del bagno, aspetto, ma Onorato non sortisce. Aspetto altri cinque minuti, dieci minuti, mi alzo e apro la porta del bagno, Onorato non c’è. Suono il campanello, non viene nessuno, suono più a lungo, arriva finalmente l’infermiera, una ragazza super (sarà l’effetto Philip Roth?) ma molto addormentata, che però capisce il problema. La scomparsa di Onorato mette in moto tutto il reparto. Io seguo le ricerche dalla mia postazione,  e alla fine Onorato riappare, scortato da due infermiere, due inservienti e il medico di guardia. Non aveva trovato la porta del bagno e si era infilato in un ripostiglio in fondo al corridoio, era lì dentro, buono buono da non so quanto tempo. Lo riportano a letto e lui sorride, chiede scusa, ringrazia tutti.
Ora è giorno, Onorato dorme, la signora Marisa non si muove dalla seggiola di fianco al letto; lui dorme e lei lo guarda. Poi siamo seduti al tavolino per il pranzo. Marisa mette sul tavolo un piccolo contenitore: Ti ho portato del purè, mangiane un pochino che quello ti è sempre piaciuto. Onorato guarda Marisa e fa no con la testa. Ma cazzo Onorato!, intervengo io in qualità di legittimo compagno di stanza, se non mangi fra un poco scompari! Non ho proprio voglia, sussurra lui, poi si scusa con me: Sai, io non sono mai stato un gran mangiatore, neanche da ragazzo. E sorride a me e a Marisa.

Invece, il terzo giorno, Onorato risorge. Niente di plateale e di glorioso ma sottobraccio a quella roccia di Marisa che sembra sua mamma invece che sua moglie, a braccetto come due fidanzati degli anni Trenta, Onorato e Marisa si spingono fino al lontano confine del reparto 3C1. E mangia perfino: talloncini minuscoli di prosciutto e qualche briciola di parmigiano. Cammina, mangia e soprattutto parla. Io domando e lui risponde, anzi, racconta, così imparerò la storia di un piccolo uomo, un comunista per l’esattezza visto che lui ci tiene a specificarlo, un uomo che da solo ha spostato una montagna, un’intera montagna da cima a fondo. Ma questo dopo, alla fine della storia, perché prima Onorato mi racconta di quella sera d’estate quando Bartali stava mettendo sotto i francesi. Noi stavamo tutti con il Campionissimo, a nessuno piaceva Bartali, ma eravamo tutti e dieci in cucina, compreso il nonno che non ci sentiva quasi più ma era un appassionato di bicicletta. In un silenzio perfetto ascoltavamo la voce della radio che mio padre aveva appena comprato. La cucina era piccola che faceva fatica a contenere i corpi sudati e i fiati caldi. Ero il più piccolo e avevo il permesso di stare attaccato all’apparecchio, l’orecchio destro incollato alla grata dove usciva la voce del radiocronista. Ero il più vicino così mi sono accorto per primo che qualcosa non andava, la voce rallentava e pareva distratta da qualcosa. Poi il commento si è interrotto lasciando una parola a metà, si sentiva il ronzio dell’apparecchio, e un’altra voce ha dato la notizia dell’attentato.

Il 14 luglio per i francesi è un giorno di festa nazionale ma intanto a Roma avevano sparato a Togliatti, tre colpi di rivoltella. Noi in famiglia si era tutti comunisti, e che cosa dovevamo essere con tutta la fame e la miseria della nostra terra? Mio padre si è messo a piangere e prima non aveva mai pianto. Poi stavano operando Togliatti e quella sera mia madre non preparò la cena. Mio fratello più grande si chiamava Primo, dico si chiamava perché è morto che non aveva quarant’anni. Mio padre piangeva e nascondeva gli occhi così ho chiesto a Primo cosa dovevamo fare. Andiamo, dice Primo, andiamo tutti e vediamo cosa fanno gli altri. Tutti voleva dire tutti gli uomini: Primo, Nevio, Nestore e anche io che avevo sedici anni ma che quella sera ero già un uomo. Anche mio padre si alza in piedi, si sfrega la faccia ispida con una mano, Andiamo, dice, e guida la compagnia fuori dalla porta verso la Casa del Popolo di Castelnuovo Sotto. Appena fuori ci fa cenno di aspettare, torna indietro e riappare con il suo Sten al collo.

Mi sembra di vederli gli Zuffoli al completo, il papà partigiano – era a Montefiorino, precisa Onorato con molto orgoglio – e i quattro figli maschi scendere muti nella notte per ricevere ordini dal Partito. Onorato continua a raccontare, parla veloce, e infatti la piccola squadra è già arrivata in paese, alla Casa del Popolo che trabocca di uomini e di voci. Molti hanno disseppellito le vecchie armi, i fucili Sten, i Thompson, un raro e prezioso mitra Beretta che mio padre si incanta a guardarlo, le Colt 1911 e le preziose Luger rubate ai tedeschi uccisi, e poi tante bombe a mano di varia provenienza. Nella sala, sopra il tavolone, troneggia una mitragliatrice da campo, lucida di grasso e completa di una lunga striscia di pallottole d’ottone. Perfettamente funzionante, sussurra Marco Salmi, ma al Salmi non c’è da credergli troppo. Restammo lì tutta la notte, e il giorno e un’altra notte, scordandoci di mangiare, nervosi eccitati e pronti a riprendere la nostra guerra dopo che alle elezioni De Gasperi con i preti e i padroni avevano cantato vittoria. Invece due giorni dopo Togliatti dal letto d’ospedale ha richiamato tutti alla calma. A Milano Torino e Genova c’erano stati scontri e più di trenta morti, noi invece eravamo rimasti per 48 ore chiusi nella Casa del Popolo di Castelnuovo, a parlare e a fumare perché il vino era finito subito. Dopo una settimana il democristiano Bartali vinceva il Tour.

Ma questo è solo il prologo, il bello del racconto deve ancora venire. Qui entra in scena Serafina, la mamma adorata di Onorato, che vorrebbe mostrarmi una sua foto ma l’unica foto di Serafina è sopra il suo letto matrimoniale, facendo egregiamente le veci di una madonna. Serafina ama sopra tutti il piccolo Onorato perché non è venuto su bene come gli altri. L’ultimogenito era rimasto piccolo, magro e nervoso come lei, mentre Primo e tutti gli altri fratelli erano alti e robusti come il padre Desiderio. Dice Onorato: Io non ci riuscivo proprio a lavorare i campi, alla sera mi si alzava la febbre. Un giorno mia mamma Serafina è andata dritta nel magazzino, una vanga in mano, ha cominciato a scavare la terra dura del pavimento. Scava e scava, tira fuori un involto, una pezza di cotone ingiallito, ecco qua dice mia mamma e mi consegna il cartoccio di panno. Apro e vedo gli anelli d’oro e gli orecchini e le spille. Questi li vendi e ti compri il tuo camion, dice Serafina, li voleva il Duce ma mica glieli ho dati.

Così Onorato, regolarmente patentato, ma inabile per costituzione fisica al lavoro agricolo, fu promosso camionista. Correva l’anno 1952 e Onorato adesso di anni ne aveva 20 tondi tondi. I soldi ricavati dalla vendita dei miseri gioielli di famiglia bastarono appena per la prima rata, ma l’occasione andava colta al volo, il Ford 412 aveva fatto la Campagna d’Italia, poi gli Alleati l’avevano parcheggiato in un deposito a Terracina, ma era quasi nuovo e robusto e perfetto di motore. Mancava solo una ritoccatina. Nevio, il fratello con la vocazione del commercio, si procurò a prezzo di fabbrica 20 latte di vernice. A quella ritoccatina ci lavorò tutta la famiglia, chiusi dentro al magazzino per tre giorni che non si riusciva a respirare. Era domenica mattina, Primo ed Ennio spalancano il portone del magazzino, Dai Sali su!, mi ordina mio padre, mia mamma ride, i fratelli e le sorelle guardano tutti me. Non c’è più da aspettare e mi arrampico fino al posto di guida e giro la chiave del mio camion rosso fiammante. Il ruggito del motore copre tutte le voci. Tiro giù il finestrino, sporgo la testa e grido: Signori, in carrozza! Così tutti gli Zuffoli salgono nel cassone di dietro, ingrano una marcia qualsiasi e il Ford 412 si muove sulle sue enormi ruote. Quel giorno è stato il giorno della festa più bella, rossi di vernice sulla pelle e sui vestiti, felici come mai più saremo stati. Il Ford 412 girò tutta la mattina su e giù per Castelnuovo, mentre cantavamo le vecchie canzoni che ora non canta più nessuno.

Il Ford 412 “rosso comunista” ebbe una vita lunga e operosa. Sopravvisse ai genitori e a tutti i fratelli più grandi di Onorato. L’ultima è stata Isolina, senza marito e senza figli, che non era mai uscita da Castelnuovo a dare un’occhiata al mondo e aveva lavorato più di tre uomini messi assieme. Quel camion era stato un vero affare, aveva dato da mangiare a tutti, ché loro due, il camion ma anche Onorato, lavoravano sempre, anche quando la pioggia non cadeva per mesi e i campi erano gialli che veniva da piangere. E per Onorato di lavoro ce n’era in abbondanza: Non andavo nemmeno a cercarlo perché il lavoro veniva lui da me. Si ricostruiva l’Italia distrutta e io trasportavo tutto, rottami, assi, sabbia, calce, mattoni. Ma era passato nemmeno un anno e una sera arriva un signore molto distinto, con gli occhiali giacca e cravatta, dice che lui è un ingegnere idraulico della Grande Bonifica e che laggiù c’è bisogno assolutamente di me e del mio camion. Quando, chiedo io. Subito dice lui, domani mattina. Dove, chiedo io. L’aspetto a Jolanda di Savoia, in piazza, domani alle nove di mattina. E non si preoccupi, la paga è buona.

Non ci pensavo allora che l’ingegner Missiroli era l’uomo del mio destino che veniva addirittura a cercarmi a casa mia, ma il mattino dopo, prima delle sei ho salutato tutti e parto con il Ford 412 in cerca di Jolanda di Savoia, che ricordavo doveva essere una regina. Niente di più facile, aveva detto l’ingegnere, devi andare sempre contro il sole, quando arrivi a Ferrara prosegui dritto verso il mare, segui la freccia Comacchio, volti a sinistra verso Massa Fiscaglia; a un certo punto ti accorgi che finiscono gli alberi e la terra diventa nera come il cioccolato, allora sei arrivato a Jolanda di Savoja. E così in due ore arrivo a Ferrara, a Ferrara c’è un castello come quello delle favole. Parcheggio vicino al castello e me lo guardo ben bene, per non dimenticare niente di quel primo castello della mia vita, ma mi torna in mente l’ingegnere della bonifica, che del castello non mi aveva detto niente ma che mi aspettava nella piazza di Jolanda di Savoia. Dopo Ferrara la strada diventava più complicata, mi fermo ogni cinque minuti e chiedo ai bambini davanti alle case di campagna, ai vecchi seduti in silenzio sulle sedie in cerchio, ai braccianti che faticano nei campi, ma poi mi accorgo di passare davanti alla stessa casa e che sto girando in tondo. Ma cosa mi aveva detto l’ingegnere, mi aveva detto del sole, degli alberi, della terra nera. Allora non chiedo più niente a nessuno e guardo avanti verso il sole che è già alto nel cielo bianco, guardo a destra e a sinistra, gli alberi sono sempre più radi e alla fine non ce n’è più nemmeno uno. Mi passa vicino un trattore più grande di una casa, sta arando non con uno ma con tre vomeri, dietro si lascia una scia nera, lucida come una biscia d’acqua.

Nella piazza di Jolanda di Savoia l’ingegner Missiroli è lì in piedi che mi aspetta, e mi sorride quando scendo dal mio camion rosso comunista, ma lui gli frega poco di fascisti o cattolici o comunisti, lui vuole solo che il lavoro sia fatto bene. Bene e in fretta. Ci siamo capiti Zuffoli? Ora le faccio vedere. Mi fa salire di fianco a lui sulla sua Aprilia nera, facciamo un piccolo pezzo di strada e ci fermiamo in un grande parcheggio polveroso. Qui, dice l’ingegnere, passerà La Gran Linea, ma io non vedo un bel niente, c’è solo un mare nero di terra arata, non c’è un animale, una casa o un albero. Guardi che fino a due anni fa qui c’era solo acqua, spiega con pazienza l’ingegner Missiroli. Per fare le strade ci vuole il fondo, capisce cosa intendo, intendo ghiaia, sabbia, stabilizzato, se non c’è un bel fondo quando posiamo l’asfalto la terra se lo inghiotte in un boccone. L’ingegnere fa una risatina e continua: Lei andrà con il suo camion a Monselice che è appena prima di Padova, da quelle parti ci sono dei monticelli tondi come panettoni, non sa com’è fatto un panettone? Queste colline adesso sono nostre. In che senso vostre, chiede Onorato. Nel senso che la società Strade Piane Spa le ha appena comprate dal demanio. Vengo al punto. Lei arriva a Monselice, gira a destra in fondo al paese, e comincia a contare: prima collina, seconda collina… la sua collina è la numero tre. E le posso assicurare che è la migliore.

Lunedì mattina alle otto del mattino ero di fronte alla mia collina. Un gruppo di operai aveva aperto la prima ferita nel suo mantello verde, una cicatrice bianca come il burro di campagna, e già una scavatrice cominciava a mangiarsela quella collina, raccoglieva quel burro prezioso e lo posava sul piazzale del cantiere. Quando arriva il Ford 412 di Onorato, si ferma ogni altro lavoro e subito comincia il carico della selce dorata. In meno di un ora il camion era pieno e Onorato partiva per la Grande Bonifica con il suo carico di miele. Appena due ore dopo, Onorato stazionava sul grande piazzale di Jolanda di Savoia. Lì batteva il cuore della Grande Bonifica, l’ultima e definitiva, quella che dopo settecento anni avrebbe finalmente cacciato in ritirata le valli. Dove avevano fallito gli Estensi e i Veneziani, gli ingegneri di Napoleone e le compagnie inglesi, dove persino il Duce si era ritirato a metà gara, ora si faceva davvero sul serio. Uomini e mezzi, come si dice. E scienza pure, perché occorreva immaginare e costruire idrovori giganteschi per liberare la terra dalle acque. Ogni anno la terra avanzava e l’acqua si ritirava: prima Valle Pega, poi Valle Giralda, e la Valle del Mezzano così grande e bella che sembrava un mare, per ultima Valle Falce.

Nella nostra camera hanno già portato via i vassoi della cena ma noi due rimaniamo seduti al tavolino. Onorato racconta e nei suoi occhi c’è una specie di orgoglio, come se finalmente avesse raggiunto suo padre nella guerra partigiana e camminasse di fianco a lui con lo Sten a tracolla. L’impresa di Onorato, avanti e indietro dai Colli Euganei al Basso ferrarese era durata quasi 21 anni. Non ci si crede, ma non si può dubitare di uno come Onorato. Io non mi fermavo mai, facevo tre viaggi, a volte quattro, a volte cinque viaggi in un giorno. Di notte si viaggiava più in fretta e la strada la sapevo a memoria, quando arrivava il sonno dormivo dentro il mio camion, dormivo poco ma dormivo bene, mi svegliavo, giravo la chiave e continuavo a guidare. Nel 1971, era la fine di maggio, ho portato l’ultimo carico. Asfaltavano l’ultimo chilometro della strada che attraversava le valli da Argenta a Comacchio. Intanto a Monselice la mia collina non c’era più.

Questa mattina a mezzogiorno ci dimettono tutti e due, la famiglia si rompe e non vale niente la mia promessa di andare a trovarli a casa uno dei prossimi giorni, o magari mai come succede sempre. Tanto la famiglia ospedaliera è finita, nella nostra camera, nei nostri letti, si sono appena istallati due sconosciuti. Onorato si è tolto il pigiama e indossa una camicia elegante, io impilo i miei libri e disfo le pile e ricostruisco piccole e ordinate piramidi che caccio alla rinfusa nello zaino. C’è quell’aria vaga di smobilitazione generale, una fine che ha ucciso tutte le parole. Così ci abbracciamo e lui se ne va per primo, a braccio di Marisa e preceduto dal figlio autista, impiegato in Comune all’anagrafe e che non sospetta nemmeno la grandezza dell’impresa di suo padre.

Quando Compagnoni e Lacedelli affrontavano l’ultimo leggendario tratto verso la cima, Onorato Zuffoli e il suo Ford 194 già viaggiavano tra Monselice e il Basso Ferrarese. Onorato non aveva scalato una montagna, lui la montagna l’aveva semplicemente spostata, smontata pezzo per pezzo, secchio per secchio. Se ora imboccate la statale da Ferrara verso Padova e guardate verso sinistra, verso i colli, potete vedere un specie di buco nel panorama, in quel buco un volta c’era la montagna di Onorato e adesso è rimasto solo il buco. Se poi vi interessa sapere dov’è finita la montagna di Onorato, girate l’auto e andate verso sud, verso la Bassa, talmente “bassa” che a Jolanda di Savoia un piccolo cartello vi avverte che siete a 6 metri sotto il livello del mare. Le strade che attraversano la Grande Bonifica sono dritte in un modo stupefacente, attraversano il nulla, hanno un piglio americano, e mentre le percorri senti di essere vicino a una qualche frontiera, o di averla superata la frontiera e di trovarti al di là delle cose. Sotto le vostre ruote, sotto quelle strade, sotto ogni metro d’asfalto e invisibile agli occhi, riposa la montagna di Onorato.

(Francesco Minimo – tutti i diritti riservati)
Anteprima in esclusiva per Ferraraitalia del racconto tratto da ‘Noi fantasmi’ di prossima uscita.

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Francesco Monini

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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