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15 Ottobre 2018

La panchina nel parco del tempo

Tempo di lettura: 5 minuti


The Gold Bug (The Alan Parsons Project, 1980)

Il vecchio sta seduto sulla panchina quando vede passare il ragazzo…

Il ragazzo è sconvolto: quel pomeriggio, qualche ora prima, la fidanzata l’aveva lasciato e lui non s’era mai sentito così fragile e vulnerabile. Quando Beatrice gli aveva detto che non l’amava più, quando poi gli aveva confessato d’essersi innamorata di un altro, lui non era riuscito a dire una parola. Era rimasto a guardarla in silenzio, immobile, inerme come un fantoccio svuotato di tutto, mentre lei se ne andava via chiudendo la porta dietro di sé e scomparendo dal suo mondo per sempre. Il primo vero fallimento della sua vita.
Fino a quel momento, nonostante i drammi familiari che aveva vissuto, era stato un vincente. Aveva ereditato una fortuna e con essa aveva costruito le basi per un futuro di successo: una laurea con lode, una carriera precoce e brillante, una bella casa, una macchina sportiva e tanta gente che lo ammirava e lo invidiava.
Appena nato fu adottato da una coppia benestante e premurosa che l’aveva educato circondandolo d’affetto e iscrivendolo nelle migliori scuole.
Era ancora adolescente quando i suoi morirono in un incidente d’auto. Dopo qualche tempo, esaminando i documenti del padre per recuperare il testamento, trovò per caso una lettera che parlava della sua adozione. Al dolore lancinante per la perdita traumatica di coloro che l’avevano tanto voluto e amato s’aggiunse la sconcertante consapevolezza che da qualche parte, chissà dove, vivevano due sconosciuti che anni prima l’avevano messo al mondo per poi abbandonarlo. Da quel momento maturò il desiderio d’incontrarli, presto o tardi, e chiedergli perché mai non l’avessero voluto.

È un tarlo che dimora nell’anima ormai da anni e quel giorno, forse per reagire all’ennesimo abbandono, ritorna in superficie pervadendo i suoi pensieri.

Il ragazzo vede il vecchio e si ferma a prender fiato…
“Tutto bene giovanotto?” chiede il vecchio.
Il ragazzo lo guarda un po’ sorpreso. “Oggi non è stata una gran giornata…” risponde.
“Allora, se vuole, si sieda pure e mi racconti!” dice il vecchio indicando la parte non occupata della panchina.
Il ragazzo è indeciso. Vuole proseguire il suo giro in compagnia dei suoi tormenti, ma è anche incuriosito da quello strano tipo che gli ha rivolto la parola senza un motivo apparente. Alla fine sceglie d’accettare l’offerta e si mette a sedere di fianco al vecchio.
I due stanno in silenzio per alcuni minuti a fissare l’orizzonte plumbeo del tramonto che si consuma alle loro spalle. Le nuvole vermiglie creano strani arabeschi simili a gigantesche lingue di fuoco in cui piccoli stormi d’allodole e frosoni, minuscoli puntini neri danzanti nel magma, tracciano le rotte verso l’Africa.

“Il tramonto è il momento più bello della giornata… non trova?” dice il vecchio rompendo per primo il silenzio.
“Non so… credo dipenda anche dall’umore che si ha in quel momento.” risponde il ragazzo continuando a fissare l’orizzonte.
“Certo, può darsi… A me il tramonto fa pensare solo a cose belle…” prosegue il vecchio, “Anche se magari erano brutte, diventano belle. È la magia di questa luce crepuscolare che trasforma il senso delle cose!”
“Mi dispiace ma non sono d’accordo. Una cosa brutta resta brutta!” obietta il ragazzo.
Il vecchio abbassa lo sguardo sul proprio orologio, lo accarezza. “Nel breve tempo di un tramonto ci si può fermare ad osservarlo… il tempo intendo. Occorre mettersi comodi, e tutto si acquieta, si rasserena… come adesso.”
Il ragazzo dà un’occhiata al vecchio, sospetta di trovarsi davanti a un tipo alquanto strano. Tuttavia, senza comprenderne il perché, ne è attratto, incuriosito. “Non capisco. Per lei cos’ha di tanto speciale questo momento?”
“Il tempo… Ripeto, si può osservarlo, parlarci. Qualcosa che in un altro momento sarebbe impossibile!” continua il vecchio.
“Ad esempio?”
“Beh… ad esempio prima stavo con mia moglie e mi raccontava di nostro figlio. Di com’è diventato e di quanto sarei orgoglioso di lui… Sono anni che non lo vedo…” dice il vecchio con un accenno di sorriso.
“Adesso dov’è sua moglie?” chiede il giovane sempre più convinto della stramberia dell’uomo.
“È laggiù…” fa il vecchio indicando un punto oltre il querceto davanti a sé, “Anzi, è arrivato il momento che la raggiunga!”
Così il vecchio si alza e guarda il giovane accanto a lui per l’ultima volta. “Caro ragazzo, è stato un vero piacere conoscerla!” dice con un sorriso affettuoso.
I due si stringono la mano. Il ragazzo rimane seduto sulla panchina ad osservare il vecchio allontanarsi e scomparire dietro il bosco di querce.

In effetti non si sono neanche presentati, non gli ha nemmeno detto come si chiama. Inoltre prova una sensazione strana, come un déjà vu.
Poi s’accorge di una cartellina in cuoio consumato ai piedi della panchina, certamente dimenticata dal vecchio. L’afferra e comincia a correre per raggiungere l’uomo e restituirla. Attraversa il querceto e, arrivato in una vasta radura ormai immersa nella semioscurità della sera, gli appare un piccolo cimitero circondato da un basso muretto di pietre interrotto da un cancelletto ancora aperto. Entra e vede una distesa regolare di lapidi tutte uguali, in marmo bianco e con le iscrizioni dei defunti incise con lo scalpello.
Del vecchio nemmeno l’ombra. Eppure non può essere andato tanto distante, o forse si è allontanato con la macchina che probabilmente aveva parcheggiato fuori dal cimitero, e la moglie lo stava aspettando proprio in auto.
Il ragazzo si convince che sia andata così e fa per andarsene quando intravede un piccolo vaso appoggiato davanti a una lapide doppia e riempito con un mazzo di fiori di campo tutti colorati. Sono gli unici fiori di tutto il cimitero.
Si avvicina incuriosito e si china per guardare le due piccole foto scolorite al centro della lapide. Sono due ragazzi ancor più giovani di lui, deduce che sia una giovane coppia morta prematuramente per qualche tragico motivo. Lo capisce leggendone i nomi e le date: Lorenzo e Giulia scomparsi proprio l’anno in cui nacque lui, appena un paio di mesi dopo. Curiosa coincidenza davvero!

Ormai è buio pesto. Decide che è ora di tornare a casa, di tornare a rimuginare sulla fine della sua storia con Beatrice. Qualcosa però lo trattiene ancora lì in quel cimitero deserto, davanti a quella lapide. Ha ancora tra le mani la borsa del vecchio, la guarda e vicino al manico vede un piccolo marchio impresso a fuoco sul cuoio. Si tratta di una linea curva che s’intreccia formando due cerchi leggermente schiacciati e uniti orizzontalmente, ognuno occupato da una lettera diversa, una elle e una g. In un attimo ne capisce il senso: è il simbolo dell’infinito e quelle lettere sono due iniziali.
Poi un pensiero insolito gli affiora nella testa. Riguarda con attenzione la foto del ragazzo nella lapide, si fa luce con l’accendino per vedere meglio quel volto che gli è parso da subito famigliare.
È impossibile, pensa. Quel ragazzo assomiglia in modo impressionante al vecchio con cui ha parlato poco prima…
Decide di andar via, stavolta sul serio.

Cammina e sorride mentre si asciuga lacrime dolci e leggere. I pensieri corrono e si accavallano come impazziti, eppure resta calmo, stranamente sereno. Ha con sé la borsa del vecchio e quando sarà a casa ne vedrà finalmente il contenuto. Magari troverà qualcosa che lo faccia sentire meno solo.
E non soltanto per quella sera, ma per tutti gli anni a venire.

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Carlo Tassi

Ferrarese classe 1964, disegna e scrive per dare un senso alla sua vita. Adora i fumetti, la musica prog e gli animali non necessariamente in quest’ordine. S’iscrive ad Architettura però non si laurea, si laurea invece in Lettere e diventa umanista suo malgrado. Non ama la politica perché detesta le bugie. Autore e vignettista freelance su Ferraraitalia, oggi collabora e si diverte come redattore nel quotidiano online Periscopio. Ha scritto il suo primo libro tardi, ma ha intenzione di scriverne altri. https://www.carlotassiautore.altervista.org/

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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