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Come tanti bambini avevo paura del buio della notte. Bastava un’ombra scura, l’eco d’un passo o il fruscio del vento tra le foglie per sentire i brividi, per accelerare i battiti del cuore e aumentare il ritmo della camminata. Quel buio, però, mi affascinava. Era il mistero, l’al di là sconosciuto, la sfida a se stessi e al desiderio di crescere in fretta.

Ero attratto e intimorito, spaventato e incuriosito dai racconti della vita notturna dei vampiri, dei fuochi fatui che spuntavano dalla terra per seguire le persone che passavano, dai morti viventi che, sotto i raggi di una malefica luna, si svegliavano per conquistare il mondo dei vivi.

Condividevo con i miei compagni di gioco questi contrapposti sentimenti, ma ognuno di noi ostentava coraggio per darsi delle arie da grandi. Fu così che una sera, giocando con questa profonda paura, ci inventammo una gara.

Chi era veramente coraggioso doveva dimostrarlo. Sfidando la notte e la morte, doveva raggiungere il cancello di ferro del cimitero cittadino e legare alle sue sbarre, come prova dell’azione compiuta, un laccio di corda.

Recuperammo una vecchia corda. La tagliammo. Ognuno prese il suo pezzo. Gli occhi socchiusi, in segno di sfida, nascondevano tutte le nostre paure. Ci voleva coraggio ad affrontare il buio, il lungo viale di cipressi, a toccare quel cancello un po’ arrugginito che custodiva i defunti. Ci dileguammo tra i vicoli delle case, convenendo che si sarebbe visto il mattino dopo, dal numero di lacci legati al cancello, quanto si era coraggiosi.

Nessuna corda fu trovata allacciata alle sbarre del cancello del camposanto. Ognuno di noi restava un fanciullo, nonostante la voglia di bruciare le tappe e di diventare grande in fretta.

Passarono diversi anni. Ormai sedicenne, durante le vacanze estive, avevo cominciato ad aiutare mio padre nei lavori di muratura, anche per racimolare un po’ di risorse utili a proseguire gli studi.

Un giorno, sul finire dell’estate, mia madre mi svegliò presto. Ricordo che era ancora buio. Dovevo raggiungere mio padre e aiutarlo a svolgere un lavoro urgente di muratura nel cimitero del paese. Lui era già partito da un’ora per mettere avanti il lavoro. La parola “cimitero”, pronunciata da mia madre subito dopo avermi svegliato, richiamò tutto il timore rimasto assopito in quegli anni e la vecchia sfida che, né io né i miei compagni, avevamo saputo onorare.

Dopo aver bevuto il caffè e raccolto il sacchetto con la colazione, salii in bicicletta e mi avviai nel fresco delle prime ore del giorno, ovattate nel silenzio che ancora regnava sul paese. Mancava poco all’alba, i cipressi neri lungo il viale si stagliavano alti contro il cielo blu scuro che, lentamente, si faceva trasparente. Mi sembrava che, da dietro il tronco d’ogni albero, potesse improvvisamente spuntare un’ombra pronta a sbarrarmi il passo. Col cuore che, inconsapevolmente, aumentava il ritmo dei battiti, accelerai la corsa spingendo con forza sui pedali, la testa bassa. Pensavo che sarebbe stato difficile prendermi se andavo veloce.

Dopo alcuni interminabili minuti ero davanti al cancello di ferro. Era socchiuso. Tra le sbarre intravidi una miriade di piccole luci tremolanti contro il bianco quasi fosforescente dei marmi. Con tutti i muscoli del corpo in tensione, i denti serrati, la bocca rigidamente chiusa, scesi dalla bicicletta. Volsi di nuovo il mio sguardo al cancello. Le punte di metallo puntavano il cielo. Pensai: “…vediamo se adesso riesci a superare la tua prova…”.

Spinsi con una mano il cancello che s’aprì, come nei classici film dell’orrore, con un sinistro cigolio. Entrai quasi in punta di piedi. L’eco dei miei passi sulla ghiaia del sentiero rimbalzava da un punto all’altro del muro di cinta. Non capivo se qualcuno mi seguisse o, invisibile, mi stesse venendo incontro. Se erano in tanti o fosse uno solo a minacciarmi. E allora mi fermavo in vigile ascolto e tutto tornava silenzioso.

Fui felice d’intravedere la figura di mio padre che, sotto il lume di una lampada appesa ad un’asta di legno, aveva già preparato l’impasto di calce necessario ad avviare il lavoro. Anche il cielo s’era fatto più chiaro e il sole, con la sua benefica luce, stava ormai per spuntare.

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Franco Mosca


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Caro lettore

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Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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