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“C’è del marcio in Danimarca”… Perfino troppo banale riportare la celebre frase shakespeariana per applicarla al “marcio” romano. L’intuisce subito il magistrato-scrittore Giancarlo de Cataldo che chiosa: “D’altronde, che a Roma ci fosse del marcio, era da tempo sotto gli occhi di tutti”

Ma che odore ha il marcio di Roma? Lo si ricava dalle impressionanti testimonianze raccolte nelle intercettazioni telefoniche che raccontano nell’uso straniante di una lingua “di mezzo” gli afrori, le puzze, le abitudini dei gregari dell’immenso marciume: ascelle mal lavate, piedi sporchi, fiati vinosi, perfino scoregge. Tutto l’armamentario di quegli uomini “veri” che ubbidiscono a coloro che intrattengono rapporti col mondo di sopra. E allora ecco che quella puzza viene coperta da profumi grevi, costosi e al feromone.
E intorno la desolazione di un marciume che prima che simbolico è reale: odor di carcere, di periferie abbandonate, di campi rom dove in una roulotte sgangherata possono vivere in otto.

Ricordate il famoso “medioevo prossimo venturo”? il celebre libro di Roberto Vacca che indicava lo sfaldamento dei grandi sistemi industriali e sociali.
Eppure il tempo attuale, il tempo romano è molto peggio di quel medioevo più pulito e meno disgustosamente puzzolente.

La cupola romana poi è il perfetto esempio di una società sessuofobica che incita alla prostituzione e al disprezzo totale verso la donna. La sua figura simbolo è la puttana, colei che deve indossare i panni della seduttrice e andare a battere per incastrare l’acquirente: “Devi vendere il prodotto amico mio, eh. Bisogna fare come le puttane adesso, mettiti la minigonna e vai a batte co’ questi”.

Infine il linguaggio di cui Filippo Ceccarelli procura un importante campionario su “La Repubblica” che sicuramente non ha la nobiltà del romanesco ma si mescida in una lingua gutturale, tronca, priva anche di quelle espressioni che dovrebbero, secondo le indicazioni dei linguisti, esprimere le esigenze di quel complesso sociale che è quello della borgata, del villaggio, di una società familiare o appena al di sopra della famiglia.

E all’ossessione delle tronche di cui Ceccarelli esibisce un campionario assai indicativo: “Piglià, pagà, comprà, prosciugà, rubbà” si intrecciano le grevi locuzioni sessuali dove ogni parola può essere commentata con “cazzo” con la frase principe per esprimere fastidio, noia, preoccupazione “non ce poi rompe er cazzo così, eh”. I soprannomi su cui svetta il “Cecato”–Carminati e via schifeggiando.

La domanda che molti di noi si potrebbero fare è questa. Possibile che anche le frange più estreme di una rappresentanza politica che copre tutto o quasi l’arco costituzionale o quasi possa essere stata sedotta da simili personaggi? Possibile che per fare affari si trascini nel marcio la prassi e i valori democratici? Sembrano domande ovvie, inutili e perfino melense. E forse lo sono se non si ragiona più secondo un punto di vista etico.

E allora la puzza del marcio t’afferra alla gola e non ti fa più respirare.
Altro che le denunce pasoliniane, altro che il pessimo riferimento agli scrittori che potrebbero aver influenzato questo modo di pensare e d’agire.

Wagner idolo assieme a Nietzsche della propaganda nazi-fascista, Pound uno straordinario poeta a cui si intitola una casa di estrema ed eversiva destra. E ora Tolkien e la sua “terra di mezzo”.
Pure fregnacce che vorrebbero “nobilitare” con un pensiero il marcio che c’è in Danimarca= Roma o l’Italia intera. Faremo tra poco così anche con Rimbaud mercante di schiavi e sommo poeta?

Ecco il punto. La cultura nella sua forma più nobile espressa da Goethe con il termine “Kultur” può e deve reagire a questa ulteriore umiliazione che gli infami della cupola romana vorrebbero – complice la modesta e tendenziosa stampa giornalistica di ogni versante, pur con le debite eccezioni – affibbiargli.

Fosse pure con la sfida con cui Farfarello il capo diavolo alla caccia dei violatori del mondo di sotto (l’inferno dantesco) inizia la sua caccia. I diavoli aspettano il cenno del capo: “Per l’argine sinistro volta dienno; / ma prima avea ciascun la lingua stretta / coi denti verso lor duca per cenno; / ed elli avea del cul fatto trombetta”

Mi scusino i miei venticinque lettori (forse meno) di questo linguaggio non proprio modello di lingua alta.
Ma all’indignazione le parole servono e debbono servire.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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