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da MOSCA – Si è conclusa da alcune settimane a Mosca, al Centro per la Fotografia dei Fratelli Lumière, una mostra personale del fotografo e fotoreporter inglese James Hill, che, per oltre 20 anni, è stato testimone di eventi accaduti in Russia e in molte zone di conflitto nel mondo per importanti quotidiani, quali il New York Times. Il lavoro su molti progetti indipendenti ha altresì fatto parte dell’ampio curriculum di questo artista che oggi ci porta a ricordare uno degli episodi più tristi della storia Russa degli ultimi anni, gli attentati alla scuola di Beslan del 1 settembre 2004. Undici anni dopo il ricordo è ancora vivo.
Nella mostra moscovita si possono ammirare immagini del suo progetto “Tra guerra e pace”, che fa parte di un libro intitolato “Da qualche parte tra guerra e pace”, pubblicato, nel 2014, da Kehrer Verlag, il risultato di oltre due decenni di lavoro. Si tratta di una raccolta di ricordi da centinaia di viaggi in aree spesso sconvolte da duri conflitti di guerra. La mostra presenta una serie di scatti effettuati in zone di conflitto come la Cecenia, l’Afghanistan e l’Iraq ma anche momenti di pace in Russia e all’estero, così come, soprattutto, storie complesse su Beslan e Chernobyl, luoghi in bilico tra guerra e pace. Queste immagini non muoiono mai, dice James: “Anche se questi istanti possono essere congelati visivamente molti rimangono per me emotivamente irrisolti, richiamando la mia attenzione anche dopo molti anni averli vissuti”. Tutte le fotografie raccontano le storie e le emozioni che stanno dietro le immagini, incoraggiando a riflettere sul difficile equilibrio tra distacco professionale e il coinvolgimento privato in ogni evento che il fotoreporter si trovi ad affrontare. Le emozioni rimangono, i ricordi vanno tramessi, soprattutto se dolorosi.
Le fotografie di James Hill vanno oltre la mera notizia. Ma mentre la caratteristica vincente dell’immagine sull’Afghanistan vincitrice del premio Pulitzer nel 2001 era la straordinaria sensazione dello spazio e del paesaggio e una consapevolezza giornalistica del mondo che si fondeva con il compito artistico di creare una composizione raffinata, riempiendo il telaio densamente con il colore nobile (delle vesti di prigionieri talebani e di donne afgane), quasi in una tradizione pittorica, altro sarebbe stato l’approccio della serie più famosa in Russia (e la più cara a James Hill) quella su Beslan (2004), premiata con il 1° Premio al World Press Photo. Qui vengono usati pochissimi mezzi artistici, si potrebbe dire il minimo, e le fotografie dedicate alla scuola # 1 di Beslan due settimane dopo la tragedia sono rigorosamente in bianco e nero. All’interno delle immagini quadrate in bianco e nero vi è completo silenzio, lasciato lì, da solo, per poter ascoltare il fruscio del tappeto di foglie di quaderni sparpagliate sul pavimento. Il grigio-nero porta a ricordare la tragedia e la morte, la totale assenza di luce di tante giovani vite perdute. La realtà è terrificante: i colpi attraverso i muri, i disegni e le scritte dei bambini, tutto mostra, attraverso l’austerità artistica, una grande attenzione al dettaglio e una sensibilità; una profonda, intensa e toccante atmosfera fotografica.

beslan
Ritratti delle vittime sui muri della scuola
Scarpe delle vittime
Ritratti di Einstein e Newton nella classe di fisica
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Uomo addetto alle pulizie che recupera i libri
Bottiglie d’acqua davanti alla palestra
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Gioco sulla spalliera della palestra
Sigarette per gli ostaggi che tentavano di resistere
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Una lavagna della scuola
Fiori, immagini e ceri in omaggio alle vittime
Lettere cirilliche S e P in cartoncino
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Giovane alunna nelle settimane successive
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Parenti di alunni davanti alla scuola nelle settimane successive
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Allievi della vicina Scuola 6
Disegni di bambini della Scuola 6
Una colomba di carta con la scritta ‘No al terrore’

Nel suo libro “James Hill en Russies”, edito dalle Editions du Courrier de Russie, una sezione intera è dedicata a Beslan, “Beslan. Alcune settimane dopo”, quella delle foto 159-192. “Nella zona intorno alla scuola n.1, nelle settimane seguenti la tragedia, le parole si seccano sotto il dolore. Si udiva solo il rumore secco dei detriti sotto i passi lenti e pesanti nei corridoi e le classi. Il suolo era ricoperto dai vestiti degli ostaggi. I muri erano sfigurati dalle tracce di proiettili e dalle macchi di sangue. Nel silenzio, la mia testa era attraversata da due suoni immaginari e ben distinti: le voci e le risate dei bambini e il rumore delle armi. I terroristi non avevano solo attaccato degli innocenti, una sofferenza insopportabile per chi aveva perso alcuni dei propri cari, ma anche un’altra cosa, ben più importante. Avevano violato un codice implicito del comportamento umano e avevano lasciato dietro di loro l’insostenibile conoscenza del livello di sofferenza che una persona può infliggere a un’altra. Dopo i fatti, gli abitanti di Beslan tentarono di riprendersi. Andavano alla scuola per piangere. Bisognava. Ma allo stesso tempo tentarono di alleviare il loro dolore. Misero centinaia di bottiglia d’acqua fuori dalla palestra dove gli ostaggi erano stati privati dell’acqua durante i giorni dell’assalto. Su una sedia, in una classe, dove gli uomini che avevano tentato di resistere ai terroristi erano stati uccisi, misero delle sigarette, come ultimo omaggio. Dappertutto vi erano scarpe, tolte agli ostaggi per impedirne la fuga. Furono raccolte con cura e messe vicino a foro, biscotti, fiori, caramelle e parole di condoglianze. Un gruppo di bambini di una città vicina venne ad appendere angeli di carta sui muri della palestra, una per ognuna delle vittime. Ogni angelo aveva un nome, l’indimenticato dell’indimenticabile”.
La descrizione è forte, intensa e toccante. James, racconta in alcune interviste, si sente preso, quasi intrappolato, tra il dovere di ricordare e la voglia di cancellare. Come non comprenderlo. Furono terribili quelle interminabili 52 ore che iniziarono il loro conto alla rovescia alle 9h30 del 1 settembre 2004, quando un gruppo di separatisti ceceni attaccò la Scuola n.1 della cittadina di Beslan (circa 35.000 abitanti), nella Repubblica del Caucaso dell’Ossezia del Nord, e tenne in ostaggio 1.200 persone, in gran parte bambini. Durante l’assedio e nell’assalto delle forze speciali russe morirono 385 persone, quasi ottocento furono ferite. Fu il più grave attacco terroristico mai avvenuto in Russia, uno dei più gravi nella storia moderna, simile a quello compiuto al teatro Dubrovka di Mosca, nel 2002.
Il gruppo armato era formato da 30 uomini in tute mimetiche e 2 donne vestite di nero, con un velo a coprire il volto, e sotto i vestiti cinture piene di esplosivo; nel cortile vi erano così tante persone perché il 1 settembre è il giorno tradizionale dell’inizio della scuola in tutta la Russia e, solitamente, le famiglie vi accompagnano i figli e si trattengono la mattina per assistere alla cerimonia d’inizio anno. Un momento che deve essere felice e spensierato, ma che allora si trasformò in un incredibile incubo. Alunni felici, nel cortile, disposti a ferro di cavallo, pantaloncini blu e camicie bianche, i maschi, abiti scuri, le femmine. In molti tenevano in mano palloncini pronti a volare liberi nel cielo terso. Ma poi l’inimmaginabile. Un gruppo armato che scende dal camion e inizia a sparare in aria. Urla e persone che fuggono (una cinquantina), quasi 1.200 tra bambini, genitori e personale della scuola sono presi in ostaggio e rinchiusi nella palestra della scuola. Nel caso dei primi momenti vengono uccise 8 persone, fra esse uno dei genitori venuti ad assistere alla cerimonia, Ruslan Betrozov, che ha osato tradurre in osseto le parole dei terroristi con cui ordinano agli ostaggi di sedersi e parlare solo in russo. I terroristi cominciano subito a minare la palestra con marchingegni terribili, molti bambini sono costretti a restare in piedi davanti alle finestre. Intanto arrivano uomini delle forze speciali del ministero degli Interni. Le trattative sono estenuanti fino alle ultime ore prima dell’assalto. Il pediatra, il dottor Leonid Roshal (che aveva seguito anche il caso di Dubrovka) è uno dei negoziatori più attivi: ai terroristi viene proposto di scambiare i bambini con ostaggi adulti, di accettare acqua, cibo e medicinali. Tutte richieste pare respinte. Di fatto, per tutte le 52 ore dell’assedio gli ostaggi rimangono senza acqua né cibo, chiusi nel caldo soffocante della palestra. Verso le 13 del 3 settembre nella palestra esplode una delle bombe posizionate dai terroristi, poco dopo una seconda: la palestra si riempie di schegge di metallo, chiodi e bulloni, una parte del soffitto crolla, tetto a fuoco, esplosioni alle finestre. Sorpresa all’esterno per le forze di sicurezza governative, i carri armati in attesa si riattivano. Ne segue una sparatoria disordinata e caotica, ostaggi in fuga dalle finestre saltate a causa dell’esplosione, soldati che avanzano, spari di civili senza ordine, terroristi che riprendono il controllo.
Nella grande sala ci sono decine di cadaveri, di feriti e di ostaggi che hanno perso conoscenza, molti sono spinti verso la mensa della scuola, altri obbligati a fare da scudi umani davanti alle finestre. Fuoco, truppe speciali che iniziando a entrare nell’edificio, un veicolo corazzato che sfonda il muri della palestra. Il panico. Mentre i terroristi si ritirano verso la mensa, alcuni ostaggi, che si sono rifugiati nelle stanze intorno alla palestra, vengono liberati. Scontri a fuoco, granate e cadaveri di ostaggi, pare altri 104. Gli scontri continuano fino a sera. Nella confusione alcuni sequestratori rompono il cordone di sicurezza intorno alla scuola. Uno di loro, Nur-Pashi Kulayev, viene trovato ferito, nascosto sotto un camion, l’unico dell’intero commando a essere catturato vivo, si dirà dopo.
Il bilancio è terribile, tremendo. Durante i tre giorni di assedio e l’assalto 385 persone vengono uccise, tra di loro 154 bambini, 10 appartenenti alle forze di sicurezza russe. Gran parte degli ostaggi viene uccisa dallo scoppio delle due bombe in palestra oppure soffoca a causa dell’incendio. Trentuno terroristi vengomo uccisi mentre un membro del gruppo venne catturato vivo. Il 17 settembre 2004, Shamil Basayev, uno dei comandanti della guerriglia cecena, rivendica ufficialmente l’attacco. Ci sono state varie inchieste per chiarire la dinamica di quello che accadde alla scuola di Beslan, ma le conclusioni a cui sono giunte non hanno mai del tutto spiegato alcuni punti poco chiari della vicenda. Ad esempio, nessuna responsabilità è mai stata attribuita alle forze di sicurezza russe per come venne condotto l’attacco dopo l’esplosione delle due bombe. Su 32 terroristi, dieci non vennero mai identificati, oppure i loro nomi non sono mai stati diffusi. Ma anche sul numero esatto del commando e il loro destino ci sono dubbi: secondo alcuni ostaggi un paio di terroristi riuscirono a lasciare la scuola già il secondo giorno di assedio e non vennero né uccisi né catturati. Ad oggi non è ancora chiara la dinamica che portò all’assalto finale della scuola.
Tutte le fotografie di Hill sembrano ripercorrere queste fasi. Incredibilmente toccante una delle prime, quella dei muri crivellati dalle pallottole, dai quali pendono le lettere in cirillico S e P, quello che resta di “S Priaznikom”, benvenuti a scuola, buona festa, bambini.
Due settimane dopo, i bambini della vicina scuola n.6 riprenderanno le lezioni, con il terrore negli occhi e nel cuore. I loro disegni e le loro colombe di carta accompagneranno il ricordo e la preghiera per tutte le vittime, soprattutto per quei bambini andati incontro a una tragedia il loro primo giorno di scuola. Angeli. Angeli innocenti. Con essi ricordando tutti quei bambini che, nel mondo, perdono ogni giorno il diritto ad un’infanzia.

Ringraziamo James Hill, per le immagini gentilmente fornite.
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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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