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di Michele Balboni

Il 24 marzo 1976 il governicchio della “presidenta” Isabelita Peron (all’anagrafe Maria Estela Martinez) veniva cestinato dalla triade Videla, Massera, Agosti rappresentanti delle forze armate “di terra, di mare, di cielo” (per rifare un verso che risuonava su analoghi balconi di casa nostra anni prima). Era il golpe che stravolse la storia contemporanea dell’Argentina.

Formica della storia del tango, microbo della vicenda argentina, mi accingo a proporre al paziente lettore alcune mie considerazioni: se siete ballerini di tango, quindi fortunati seguaci e praticanti del “ballo più bello di sempre”, l’obiettivo sarà suscitare il vostro interesse per la conterraneità degli avvenimenti, se siete amici l’obiettivo sarà condividere impressioni: verso entrambi la mia attenzione sarà di non suscitare noia e magari fornire alcune informazioni.

Il tango alla metà degli anni ’70, anche nella propria terra di nascita, era confinato ai vivi ricordi dei non lontani anni d’oro. Già da un ventennio la produzione musicale pensata per il ballo dell’abbraccio era rinsecchita. Le pregevoli e raffinate creazioni di Astor Piazzola e di pochi altri, alleviavano l’ascolto ma non ravvivavano l’atmosfera delle milonghe. Permanevano lontani lo splendore e la ricchezza del tango diffuso e praticato dall’altra parte del mondo negli stessi anni in cui da noi si preparava la guerra, la si combatteva, se ne curavano le ferite. Forse per reazione alla mondiale tragedia o per omaggio ai “liberatori” i ritmi americani erano proposti ed apprezzati dai giovani. Il tango dormiva il sonno dei giusti, consapevole che il peggio doveva ancora arrivare.

E venne infatti il giorno in cui le trasmissioni tv furono interrotte (non così la partita di calcio Polonia – Argentina), al pari delle libertà più elementari. I nuovi malvagi al potere, con gradi e stellette, si ripromettevano di salvare il proprio Paese, affrancarlo da problemi economici, battere il terrorismo, e quant’altro di utile… La dittatura civico-militare avrebbe prodotto trentamila desaparecidos, un milione e mezzo di esuli, oltre cinquecento bambini “rubati” (la maggior parte dei quali tuttora non identificati), una economia più disastrata di prima, finanche una vera guerra persa (del tipo a noi noto “armiamoci e partite”) con quasi mille morti: alla faccia del “piano di riorganizzazione nazionale”! I Generali (più o meno, uno era un brigadiere, ma tant’è…) all’inizio, presi dalla loro santa missione, non avevano tempo per la cultura, la musica, il tango anche se trovarono attenzione e denaro per proporre l’edizione più costosa e corrotta dei campionati mondiali di calcio.

Nel prosieguo, preso atto che non portavano consenso i carri armati per strada, i centri di detenzione clandestina, le torture a terroristi (pochi) o presunti tali (tanti), si pensò anche al nostro ballo. Venne inventato il giorno internazionale del tango (l’11 dicembre, data di nascita di Carlos Gardel e di Julio de Caro), si fondò l’Orquesta de tango de la Ciudad de Buenos Aires, si finanziò il tuor europeo del sopracitato innovatore del tango. Parallelamente si procedeva però con il progetto Operativo Claridad per disboscare arte, cultura, cinema, giornalismo, letteratura, da ogni voce o comportamento dissenziente dai canoni consigliati. Trovo così al numero 257 della lista di proscrizione per l’anno 1980 il nome Pugliese Osvaldo Pedro musico-director de orquesta (segue numero di carta di identità), autore che sono invece solito abbinare alla melodia di Recuerdo e alla forza di Negracha. Trovo anche al numero 8 (in virtù dell’ordine alfabetico) il cognome di un amico pianista residente nella mia città da anni. E per fortuna che in quella lista si indicavano i nominativi di individui giudicati scomodi, soggetti da ostacolare sul proprio lavoro o perseguire in vari modi, ma non da sequestrare o far scomparire…

Ma il tango stesso come si rapportava agli aguzzini e ai loro mandanti? Immaginiamolo personificato con i modi aristocratici del compositore e pianista Juan Carlos Cobian e la voce e la presenza scenica del grande Carlos Gardel, probabilmente ci direbbe: “E’ vero c’è stato un periodo in cui malvagi mi hanno utilizzato a mia insaputa e, di questo, pur non avendone io alcuna colpa, resto tuttora affranto e contrito. Chiedo perdono a quelli che, catturati da un regime che ha infestato, per oltre sei anni, il Paese in cui sono nato, vennero sottoposti a vessazioni e torture. I dischi che mi ospitavano erano suonati per coprire le loro urla di dolore, affinché dall’esterno dei campi di prigionia clandestini non si udissero gli scempi che dentro stavano avvenendo. E gli stolti torturatori non si accorgevano nemmeno, presi dalla loro malvagità, che i miei cantores alzavano la voce nell’esecuzione ed altrettanto facevano i musicisti usando i toni più alti degli strumenti, gli uni e gli altri protetti dentro i dischi, perché loro stessi non volevano udire quelle urla di dolore. Tornavano poi i brani nella loro normale tonalità quando di nuovo venivano eseguiti in contesti ordinari. Capisco comunque che chi è scappato dal buio di quei seminterrati e chi piange il dolore dei propri cari scomparsi e mai più ritrovati possa ora odiarmi, confondendomi con i carnefici, ma sappia che io stesso sono stato vittima”.
Se lo dicono i fantasmi di due interpreti di tal portata sarà ben vero…

Declinavano i tempi della picana, proseguivano le marce delle madri in Plaza de Mayo, era ampiamente scemato il consenso popolare nonostante il velleitario tentativo di riconquista militare delle gelide isole Falkland-Malvinas, quando il tango veniva impacchettato e portato al Teatro Chatelet di Parigi. Il successo di pubblico e di critica della prima, il 13 novembre 1983, fu enorme. Il tango risorge e rifiorisce, e non a caso ciò avviene proprio a Parigi, laddove all’inizio del secolo si era raffinato e aveva trovato la spinta per tornare nei suoi luoghi di nascita ed essere finalmente apprezzato. Che spettacolo deve essere stato per i fortunati spettatori: coreografia di Juan Carlos Copes, musica del sexteto Mayor (al piano Horacio Salgan), ballano (tra gli altri) Juan Carlos Copes e Maria Nieves, Virulazo e Elvira, Maria e Carlos Rivarola, canta “el polaco” Roberto Goieneche!

Quindi cade la dittatura civico-militare (siamo nell’autunno 1983) e il tango rinasce: una coincidenza? “Il caso non esiste!” dice l’autorevole tartaruga-maestro Oogway nel film “Kung fu Panda”…

In verità il processo di vera rinascita democratica del grande Paese sudamericano, cui dobbiamo il tango, ed anche – non dimentichiamolo – il più grande campione della storia del calcio, non è subitaneo. Così il nostro ballo trova affermazione planetaria un paio di anni dopo quando, lo stesso spettacolo titolato “Tango Argentin” è riproposto a Broadway: sei mesi di repliche. Da allora una crescita e una diffusione continua, perlomeno nella sua componente più spettacolare e praticabile: il ballo. Fino ai giorni nostri.

Tango e dittatura: la rivincita del tango?
Eccoci all’epilogo, abbiamo trascorso alcuni minuti insieme come ballerini e come amici: seguendo il titolo di un recente dvd realizzato dal regista Marco Bechis sulla vita di Vera Vigevani Jarach, una delle fondatrici del movimento Madres de Plaza de Mayo, abbiamo ascoltato insieme, almeno per un po’, “il rumore della memoria”.
Walter Calamita, presidente dell’Associazione 24 marzo – loro sì che hanno titolo per parlare di queste cose – scrive nella sua prefazione al mio romanzo “La Diva del tango – alla ricerca del nino rubato” di un processo dove accanto a Verità e Giustizia si affianca la Memoria, al proposito io nel mio piccolo mi limito a ringraziarvi per avere condiviso con me questa ricorrenza.

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Riceviamo e pubblichiamo


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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