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I mass media rappresentano ogni giorno l’economia secondo un rituale che ha sostituito agli occhi di molti quello che per secoli era stato proprio della religione. Giornali, radio e televisioni descrivono quotidianamente la centralità di un’economia invadente che, da un lato, ha perso il significato profondo e, dall’altro, si mostra come indubitabile fatto tecnico, disciplina scientifica, rappresentazione oggettiva della realtà, sistema procedurale regolato da leggi ferree ed obiettive, apparentemente non modificabili. Da un lato si celebra la crescita quantitativa e dall’altro si esibiscono come casi umani quanti sono stati travolti dal sistema economico impazzito.
Questo tipo di discorso sociale proposto dai mass media ci dice assai di più sulla natura e l’evoluzione della nostra società di quanto possano dire i numeri, gli indici, gli indicatori e i casi umani sui quali questa rappresentazione vorrebbe fondarsi.
Vi è infatti dietro ad essi, dietro al pensiero unico dominante, un modo di pensare, un sistema di credenze diventato nella percezione comune un sistema di fatti inoppugnabili.
A fondamento di questo credo può essere posta una celeberrima frase di Adam Smith, uno dei padri dell’economia moderna, eletto a patrono delle varie forme di liberismo:

“Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del panettiere che ci aspettiamo la nostra cena, ma dalla loro considerazione del loro stesso interesse”.

Per fortuna però la nostra economia di mercato può essere osservata anche da altre e differenti prospettive: dal punto di vista sociologico, ad esempio, essa può essere pensata semplicemente come un’istituzione, ovvero un complesso di valori, norme, consuetudini che definiscono e regolano durevolmente, i rapporti sociali ed i comportamenti reciproci di soggetti, la cui attività è volta a conseguire un fine socialmente rilevante. Il fine, in questo caso, è quello di organizzare risorse con lo scopo di soddisfare al meglio i bisogni individuali e collettivi. Un fine che è andato perso insieme alla consapevolezza che l’economia è un prodotto umano, un sistema che nasce nella società e si fonda su dei valori: economia è innanzitutto una scienza morale, peccato che il percorso della modernità abbia finito per separarla dal contesto, trasformandola in una sfera autoreferenziale che funziona in base ad implacabili regole interne che hanno finito con lo scollegarla da molti dei valori fondativi dello stesso vivere civile. Con le parole più precise dell’economista David Korten:

“Non esiste espressione più forte per i valori di una società delle sue istituzioni economiche. Nel nostro caso abbiamo creato un’economia che stima il denaro al di sopra di tutto il resto, accetta la disuguaglianza come se fosse una virtù ed è spietatamente distruttiva nei confronti della vita.”

Questo meccanismo, che secondo molti critici sta distruggendo l’ambiente e i beni comuni, che pregiudica il funzionamento della società e l’identità stessa delle persone che la compongono, sembra, oggi più che mai, sfuggito di mano, con conseguenze che rischiano di essere gravissime. Eppure lo stesso Adam Smith aveva acutamente descritto alcune delle condizioni indispensabili perché l’agire interessato delle persone potesse portare buoni frutti. Nel lontano 1774 egli infatti sosteneva:

“Tutti i membri della società umana hanno bisogno di reciproca assistenza, e allo stesso modo, sono esposti a reciproche offese. Quando la necessaria assistenza è reciprocamente offerta dall’amore, dalla gratitudine, dall’amicizia e dalla stima. la società fiorisce ed è felice. Tutti i suoi diversi membri sono legati tra loro dai gradevoli vincoli dell’amore e dell’affetto, ed è come se fossero attirati verso un centro comune di reciproci buoni uffici.
Ma anche se la necessaria assistenza non dovesse essere assicurata da tali generosi e disinteressati motivi, anche se tra i diversi membri della società non dovesse esserci alcun amore e affetto reciproco, la società, sebbene meno felice e gradevole, non ne sarebbe necessariamente dissolta.
La società può sussistere tra diversi uomini, così come tra diversi mercanti, per un senso della sua utilità, senza alcun amore o affetto reciproco; e anche se in essa nessuno dovesse avere alcun obbligo, o legami di gratitudine verso qualcun altro, essa potrebbe essere ancora mantenuta da uno scambio mercenario di buoni uffici secondo una valutazione concordata.
La società, tuttavia, non può sussistere tra coloro che sono pronti in qualunque momento a danneggiarsi o farsi torto l’un l’altro. Nel momento in cui quel torto ha inizio, nel momento in cui si manifestano risentimento ed animosità reciproci, tutti i suoi legami si spezzano e i diversi membri che la costituivano sono come dissolti e dispersi via dalla violenza e dal contrasto delle loro discordanti affezioni. Se c’è qualche società tra ladri ed assassini, essi devono perlomeno, secondo una trita osservazione, astenersi dal derubarsi e dall’uccidersi l’un l’altro.
La beneficienza, dunque è meno essenziale della giustizia all’esistenza della società. La società può sussistere, anche se non nel suo stato più confortevole, senza beneficienza; ma il prevalere dell’ingiustizia non può che distruggerla completamente”.

Senza la prospettiva della giustizia, priva di uno stock consistente di beni comuni, l’economia di mercato diventa un meccanismo cieco e perde dunque ogni orientamento e ogni umana direzione: senza l’idea di reciprocità – che non è riducibile al mero utilitarismo – ogni persona perde la speranza; senza una base profonda di cooperazione e fiducia la competizione economica diventa semplicemente distruttiva. Giustizia e salvaguardia dei beni comuni e collettivi non sono perciò delle limitazioni che si mettono al libero mercato impedendone il buon funzionamento e minandone l’efficienza: al contrario, esse sono il fondamento in assenza del quale l’intero sistema sociale è destinato a corrompersi e ad implodere. Regole giuste e virtù civili diffuse sono indispensabili al buon funzionamento dell’economia di mercato tanto quanto lo sono l’efficienza delle imprese e la fiducia dei consumatori. Il sistema economico è lo specchio dei valori della società: oggi più che mai è quindi importante ritrovare i fondamentali dell’agire economico ed immettere in questo sistema nuovi valori generativi che non siano riducibili semplicemente al dogma della crescita e all’imperativo del consumo.

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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